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2. SEGUE – Siamo in un piccolo comune di circa novemila abitanti nel cuore della bassa bolognese. Anche se l’economia del territorio circostante è prevalentemente agricola, il distretto industriale del comune ha conosciuto, soprattutto a partire dagli anni settanta in poi, un notevole sviluppo imprenditoriale. È appunto nell’area industriale situata ad un paio di chilometri dalle due frazioni affacciate alla Porrettana, principale via di collegamento tra Ferrara e Bologna, che si trova il grande impianto dello stabilimento in questione.
La fabbrica venne costruita intorno al 1970 su iniziativa di un giovane e intraprendente imprenditore bolognese. Originariamente si trattava di una piccola ditta operante nel campo dei semilavorati plastici con sede a San Lazzaro di Savena, ditta che nel giro di pochi anni decuplicò il proprio volume d’affari diventando di fatto una delle realtà industriali più attive e promettenti del settore. Negli anni novanta l’azienda è già inserita tra i massimi esportatori europei con clienti sparsi in tutto il mondo.
Nel 2000 l’azienda toccherà il suo apice produttivo con l’istallazione di una quarta linea di produzione, fase che però segnerà anche l’inizio di un lento, quanto inesorabile, declino.
Nel biennio 2000-2001, per avviare e consolidare la nuova linea, vengono assunti una quarantina di nuovi operai, raggiungendo così la sua massima occupazione di sempre, ovvero un totale di circa duecentotrenta dipendenti, tra operai, impiegati e quadri dirigenziali. Gli ingenti investimenti fatti per l’ampliamento degli impianti produttivi, fatalmente coincidenti con la congiuntura economica negativa creatasi dopo gli eventi legati all’undici settembre 2001, costringono l’azienda a chiedere aiuto alle banche. Dopo poco, il suo stesso fondatore, un uomo ormai anziano e senza nessun erede interessato a subentrargli nella conduzione dell’impresa di famiglia, decide di mettere in vendita lo stabilimento, cercando un acquirente in grado di ripianare il passivo con le banche e di garantire al tempo stesso il mantenimento dell’occupazione.
Nel 2003, una società di capitali francese operante nello stesso settore chimico-plastico accetta la proposta del vecchio imprenditore bolognese, rilevandone l’azienda con la promessa di risanare il bilancio e di salvaguardare i posti di lavoro. L’azienda cambia così nome e proprietà, ma fabbrica e soprattutto i suoi dipendenti restano gli stessi. Per i nuovi padroni è il terzo e ultimo stabilimento in ordine di acquisizione, ma è anche il maggiore impianto produttivo del gruppo.
Dal 2004 il giovane rampollo della ricca famiglia neoproprietaria dello stabilimento ne affida la gestione a una coppia di manager di sua conoscenza (uno di loro è un suo vecchio compagno di studi). Questi, con alle spalle un curriculum non proprio lusinghiero e approfittando della fiducia riposta dalla proprietà, intraprendono una politica di investimenti arrembante quanto spregiudicata. Investimenti che nel tempo si rivelano sbagliati, come l’acquisto di un costoso macchinario progettato per la fornitura di una serie di commesse per un grosso cliente americano. L’impianto, non preventivamente collaudato, si rivela inefficace e causa l’annullamento del contratto, con conseguente perdita di soldi e cliente. Purtroppo, la leggerezza dimostrata in quell’occasione sarà solo il primo di una serie di passi falsi della dirigenza, che negli anni successivi si tuffa imperterrita in altri investimenti di dubbia efficacia. Intanto il debito con le banche non accenna a diminuire e, per rendere il passivo di bilancio meno gravoso, si decide di risparmiare sul costo delle materie prime e sul processo di lavorazione. Queste scelte provocano una progressiva diminuzione della qualità dei prodotti che influirà su tutta la filiera commerciale peggiorando inevitabilmente l’immagine del gruppo.
L’azienda bolognese era famosa per l’eccellenza dei suoi prodotti e per la straordinaria capacità di soddisfare tutte le esigenze di una clientela molto variegata. Il nuovo management, per contenere i costi, decide di non puntare più sulla qualità del prodotto e di eliminare la piccola clientela per dedicare tutte le energie al soddisfacimento del grande fabbisogno di semilavorato delle multinazionali asiatiche e americane. Pochi grossi clienti che però hanno dalla loro un enorme potere contrattuale e obbligano l’azienda stessa ad accettare le loro condizioni riguardo a prezzi e pagamenti, col risultato di ridurre all’osso i margini di guadagno per chilo di prodotto e di impoverire tutto il processo produttivo.
È così che l’intero gruppo industriale italofrancese entra ben presto in un vortice di situazioni senza controllo: un nuovo mercato con una fortissima concorrenza internazionale (cinesi e indiani in primis), impianti obsoleti e interventi strutturali sbagliati, una gestione del personale assente, la nomina di quadri dirigenziali inadeguati, ed infine la riduzione dei margini di guadagno e la conseguente impossibilità di risanare il debito con le banche.
Di anno in anno la situazione economica si fa sempre più critica: il bilancio rimane costantemente in passivo e il debito aumenta in modo esponenziale. Nel 2010 la proprietà cerca finalmente di correre ai ripari allontanando i due manager ritenuti responsabili di sei anni di gestione disastrosa. La nuova dirigenza inizia così la sua opera di risanamento, e lo fa intervenendo sul costo del personale.
Per scongiurare l’ipotesi dei licenziamenti, che porterebbe ad un inevitabile scontro frontale tra azienda e lavoratori, si decidono nuove turnazioni che portano ad una graduale riduzione dei giorni di riposo, si aumenta cioè l’orario lavorativo mantenendo il salario inalterato. Il conseguente malcontento e le preoccupazioni dei lavoratori appaiono evidenti nelle assemblee sindacali, dove viene approvato un pacchetto di scioperi che provocherà un’interruzione del dialogo tra azienda e sindacati, con proprietà e dirigenza più che mai intenzionate a continuare a perseguire le loro strategie senza coinvolgere i lavoratori.
Tuttavia, la linea di condotta della dirigenza si rivela ben presto controproducente, e anche la carta della mobilità volontaria risulta inutile per il rifiuto di tutti i lavoratori interpellati. Alla fine la società, messa alle strette dalle banche, riprende il dialogo coi lavoratori e, con l’avallo dei sindacati, propone e stipula i cosiddetti “contratti di solidarietà”, l’accordo prevede che ogni dipendente accetti di ridursi il salario per permettere a tutti di mantenere il proprio posto di lavoro.
Purtroppo quest’ennesimo tentativo non riesce ad invertire la rotta e viene aperta la cassa integrazione straordinaria, ormai è tardi ed è chiaro per tutti che il destino di questa fabbrica dal fiorente passato sia definitivamente segnato.
Il buco di bilancio è pauroso (circa settanta milioni di euro nel 2012), le banche creditrici non accettano il piano di risanamento proposto dalla società e viene avviata una procedura di amministrazione straordinaria in cui la gestione viene affidata ad un commissario nominato dal tribunale. Gli eventi precipitano e, per poter salvare il gruppo, si decide di sacrificare lo stabilimento bolognese scorporandolo e mettendolo in liquidazione. In molti lavoratori, tutti collocati in cassa integrazione straordinaria, rimane la vana speranza che qualche acquirente si faccia avanti per riscattare lo stabilimento e ripartire.
La realtà attuale è che l’intero gruppo industriale è stato messo in vendita e, qualunque cosa accada da ora in avanti, la filiale bolognese è stata esclusa da ogni ipotesi di accordo. I suoi impianti saranno smantellati e i lavoratori, cessati i termini della cassa integrazione straordinaria, passeranno tutti quanti in mobilità.

2. CONTINUA [leggi la terza parte]

Leggi la prima parte

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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