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A scuola da don Milani. Seconda parte

Don Milani la pace e le mille sfumature del pacifismo, il militarismo, la patria

Non saprei dire se è giusto mettere don Milani nella folta, variopinta, talvolta ambigua, schiera dei pacifisti.

Oggi personalmente tenderei ad escluderlo. Di sicuro si può dire che era per la non violenza. Di ispirazione gandhiana. E quindi contro la guerra (come diceva della sua posizione, lo stesso Gino Strada, che di guerre se ne intendeva, e che non amava il termine “pacifista”).

Era contro la guerra, don Lorenzo, e tutto quel mondo di militari e paramilitari, che campava di retorica bellicista e militarista, convinti che solo la guerra è la levatrice della storia. Quei cappellani che, più militari che preti, pretendevano pure di imporre il loro militarismo alle libere coscienze, abusando delle insegne sacerdotali. Andavano pure avvertiti, questi residui bellici, che i tempi delle crociate erano passati da molto!

Oggi in presenza di due tragiche guerre vere, in Europa e dintorni, la nostra coscienza è tormentata da molti dubbi e poche certezze.

Abbiamo così un triplice confronto morale:

  1. quello contro la guerra, distinguendo fra i carnefici e le vittime (che, come dice don Milani, sono sempre i più poveri) e stare senza esitazione dalla parte delle vittime;
  2. quella contro la retorica intorno al concetto di nazione, indicata come la “patria” e assunta come criterio identitario di appartenenza, ideologica ed etnica;
  3. quello del rapporto fra coscienza libertà e obbedienza.

È la storia che ci insegna che il nazionalismo, frutto dell’idea esasperata di nazione, associato sempre a patria, è la prima causa ideologica delle guerre. Ed è proprio questa associazione, fra patria e guerra, che don Milani rompe, clamorosamente, enunciando la sua originale idea di patria.

Un certo uso dell’idea di patria, diceva il priore di Barbiana ai cappellani militari, ha legittimato, come è stato ricordato, “armi che sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, fare orfani e vedove”, al seguito della retorica imperiale, per la grandezza della patria e della razza.

Nel contempo riafferma la lotta, non violenta, dei poveri. “le armi che io riconosco sono lo sciopero e il voto”….“ e se voi dividete il mondo in italiani e stranieri, io reclamo il diritto di dividerlo in diseredati ed oppressi da una parte, e privilegiati ed oppressori dall’altra”.

Morti e massacri, si diceva, sempre servendosi dell’obbedienza. Quell’obbedienza “che voi esaltate senza nemmeno domandarvi, come fa san Pietro, se dobbiamo obbedire agli uomini o a Dio”. Cosa c’è di più evangelico, di più sacro di queste parole di don Lorenzo?

Che definisce coraggiosi, i pochi che vanno in prigione per fare, come san Pietro: “aspettate a insultarli, dice ancora a loro. Domani forse scoprirete che sono dei profeti.…  che, come sempre, i profeti stanno in prigione…e non è bello stare dalla parte di chi ce li tiene.”

“Nelle figure di Socrate e del Gesù dei vangeli, si incarnano i modi dell’obbedienza e della disobbedienza in quanto entrambi espressione della libertà” nota Maisto.

Difende così la libertà di coscienza don Milani, ma in effetti prende di petto la guerra. “Apertamente antimilitarista e contrario ad ogni guerra” ci dice Gaccione “senza inutili sofismi su quella pratica criminale”. Con una grande novità: l’avvento del nucleare. Una svolta storica che ha cambiato radicalmente anche la posizione della Chiesa verso la guerra, come ci ricorda Davigo.

Ma un contributo fondamentale su questo punto cruciale, ci è dato da padre Balducci con il suo “uomo planetario”, d’accordo perfino con lo stesso Darwin (“una volta che la specie umana si percepirà un tutt’uno, i rapporti di simpatia fra gli uomini si sarebbero estesi fino all’estremità del pianeta”).

“L’uomo planetario” di Balducci, supera non solo ogni distinzione bizantina, soprattutto identitaria, portata dalla storia fino ad oggi. “Anche la qualifica di cristiano mi pesa”, scriveva padre Balducci, perché divisiva degli esseri umani, come ogni qualifica identitaria. Ma spazza via tutto l’armamentario sovranista.

Non sono che un uomo, espressione neotestamentaria in cui la mia fede meglio si esprime”.

Ma la novità più grande che porta Balducci, è che da questa nuova identità sarebbe derivata una “cultura della pace” basata su due pilastri: la politica e l’ecologia. La pace fra gli esseri umani con la politica, la pace con il pianeta con l’ecologia.

È profezia? È utopia? Utopia è anche quella di Kant nella sua “pace perfetta”. Eppure è un contributo importante al pensiero sul tema. Quel pensiero che, come dice Vito Mancuso, ha il compito di indicare l’ideale verso cui camminare, “e senza profezia e utopia non c’è neppure teologia”. Del resto l’alternativa, dice ancora, è il blut und boden, “sangue e suolo” che i nazisti amavano evocare. Un’alternativa tragica molto praticata ancora oggi.

Ebbene questo il milieu intellettuale del laboratorio fiorentino. E non è un caso che Balducci entri, anche lui, come imputato nel processo a don Milani.

Don Milani però va oltre, nelle sue motivazioni contro la lettera ai cappellani militari.

Introduce il principio di responsabilità solidale: chiunque partecipi a una azione collettiva, ne è responsabile morale. L’obbedienza alla legge ingiusta, o a un ordine ingiusto, non deresponsabilizza. Perché allora anche l’olocausto è solo colpa di Hitler che, essendo pazzo, non è responsabile neanche lui. E così l’uccisione di 6 milioni di ebrei non ha colpevoli. Non più l’obbedienza cieca, quindi, ma l’obbedienza consapevole.

Così il principio di responsabilità personale, è la cifra che definisce in positivo la posizione di don Milani sul rapporto con la legge, la coscienza e il militarismo.

E proprio rispetto alla legge, e il costante riferimento alla costituzione, è cruciale l’insegnamento del priore di Barbiana. Intanto la distinzione fra legge e legalità.

Si deve essere sempre dalla parte della legalità, e dalla parte della legge se giusta. E se giusta non è, occorre battersi per cambiarla. Questo insegna ai suoi ragazzi. Non un sovversivo, quindi, ma un educatore che afferma la supremazia della coscienza e della responsabilità, civica e politica. Quella “da esercitare non da soli, il che è egoismo, dice, ma insieme ad altri, che è invece la politica”. “Esortando alla non collaborazione col male” dice Maisto.

La sua radicale avversione alla guerra, come alla povertà, alle ingiustizie, ne fanno un difensore dei poveri, della legalità, di leggi giuste, che sono quelle a tutela dei più deboli. E non è che tutto questo si può cambiare con le giaculatorie.

“Un sistema può cambiare solo se si sconvolgono le sue regole” diceva padre Turoldo. E don Milani ammoniva ancora che “bisogna rimboccarsi le maniche, perché bisogna essere noi a cambiare il sistema, e non aspettare che il sistema cambi noi”.

Don Milani e la scuola classista

Per don Lorenzo la scuola è la via obbligata per la cultura, indispensabile a ciascuno per realizzare la propria umanità. Ed è per questo che, per i suoi poveri la sceglie come progetto centrale della sua missione formativa, ma anche evangelica. Via di uscita dalla emarginazione, attraverso una emancipazione culturale.

Ma che scuola era quella offerta dalle istituzioni? Che scuola è tuttora? Intanto molti ne erano esclusi, e molti erano discriminati in base al censo e alle condizioni di vita. “Un ospedale, quindi, che cura i sani e respinge i malati”. E quanto è vero ancora oggi, soprattutto per i poveri “migranti” universitari.

Gli stessi criteri di giudizio erano intrinsecamente discriminatori. “Se il compito è da 4, io do 4.’ …”, diceva la professoressa della lettera, credendosi giusta cosi. Obbiettiva, pur trascurando del tutto la condizione di vita del ragazzo. Ma questo, era del tutto in linea con i criteri di giudizio allora correnti. Un modo di pensare condizionato dal famoso “velo di ignoranza” di Rowels, che induce a valutare impersonalmente i principi di giustizia.

Una scuola “duramente selettiva”, quindi, come ci ricordano Ichino e Lizzola, che hanno visto perdere quasi tutti i compagni di classe, via via che passavano alle scuole superiori. Un abbandono che contraddiceva quella che pure era una diffusa aspirazione, anche nelle famiglie povere.

Come non ricordare la canzone iconica del sessantotto, Contessa di Paolo Pietrangeli, così ironicamente vera e ficcante. La pretesa indecente, la definirei io, ”….ma pensi, contessa,…del figlio dell’operaio che vuole diventare dottore”.

Ebbene, quel modello, Milani lo ribalta intanto con tre principi basici:

  1. quello di combattere la dispersione scolastica. Cercava i ragazzi, convinceva i genitori
  2. quello di personalizzare l’insegnamento, l’antico adagio che “per insegnare il latino a Giovanni, bisogna conoscere Giovanni, ancora prima del latino” era per lui un must…. Pierino il privilegiato e Gianni lo sfigato, racconta, non sono uguali. “E trattare da uguali i disuguali, è profonda ingiustizia”. E qui si apre tutto il discorso su cosa vuol dire “merito”.
  3. quello di dare un insegnamento vivo, aperto nel mondo, capace di leggere la realtà, conoscere i propri diritti, usare gli strumenti per affermarli e difenderli.

Formare delle personalità che abbiano dignità e autostima. Da sudditi della povertà a cittadini a pieno titolo. Togliendo “questo veleno della educazione all’umiltà degli umili perché è ciò che permette di asservirli…” (Lizzola). E questo attraverso un impegno duro di 12 ore al giorno, per 365 giorni l’anno.

In questo impegno, don Lorenzo parte da una grande scoperta: l’importanza della parola, del linguaggio, che è il fattore discriminante. Il figlio del contadino non aveva meno conoscenze del figlio dell’avvocato (pensiamo al rapporto con la natura). Ma non aveva il linguaggio, e questo lo teneva ai margini, penalizzato da un sistema di giudizi “oggettivi” e quindi “giusti”, tecnicamente, ma non moralmente.

Don Milani organizza un processo formativo/educativo, per dare ai suoi ragazzi il linguaggio. Quello che fa “la saldatura fra la scuola e l’evangelizzazione”, dice Bettoni, che ricorda anche come, ogni rivoluzione di cambiamento che è avvenuta nella storia della Chiesa, “non ha mai fatto riferimento a modelli sociologici, organizzativi, ma al vangelo sine glossa”.

Però la scuola del priore vuole dare anche la conoscenza, il senso critico, la coscienza civica, il senso di giustizia e la solidarietà. Non senza affrontare, in ciò, ostacoli, pregiudizi, ostilità. Ma lui va avanti, e fa, così “una vera rivoluzione didattica, che è una grande battaglia per l’uguaglianza, utilizzando la lingua come strumento”, ci dice Diana De Marchi.

Una uguaglianza che sembra un valore/obiettivo oggi dimenticato. Un clima politico che, rispolverando l’ambiguo termine “meritocrazia”, promuove una ideologia che, ci ricorda Gad Lerner: “Papa Francesco dice che serve a giustificare le disuguaglianze”.

Una scuola che, così invece di essere sul “filo del rasoio fra presente e futuro” come dice Ivo Lizzola, si colloca nostalgicamente fra presente e passato. Con il solo obiettivo di “distribuire potere senza… sapere”.

Pur fra le molte difficoltà, a Calenzano prima e Barbiana poi, don Lorenzo procede con la sua scuola. Una scuola moderna e innovativa. Un lavoro duro, impegnativo, ma anche piacevole e divertente, come dice un suo allievo.

Anche perchè “meglio la scuola che la merda”, (delle stalle ovviamente), scrive un ragazzo nella lettera. Impegnativo e divertente il lavoro della scuola, perché scandaglia il mondo: geografia, storia, materie classiche, ma anche lingue, studio dei classici a partire da Socrate non a caso, pittura, musica, lavoro manuale, esperienze all’estero, i grandi che insegnano ai piccoli, una ricchezza di esperienze insomma, esercitando e stimolando costantemente l’immaginazione.

Una qualità che lui apprezzava molto (che gli stessi Eistein e Fellini consideravano un attributo della genialità). E dalla quale nasce il carattere visionario di chi la possiede.

Si potrebbe dire che Barbiana è un modello, ma non è vero. Lui peraltro lo contesterebbe.

Però è una esperienza ispiratrice di valori e di criteri di comportamento, come dimostra il successo nel mondo.

Studio severo, studio della realtà, a partire dalla lettura dei giornali… il giornale a Barbiana!

Precursore della scuola a tempo pieno, di una didattica creativa, di un modello nel rapporto scuola-lavoro, dello stesso Erasmus.

Corollario importante nella rivoluzione della scuola di Barbiana, e anche centro del processo educativo, è il messaggio che aveva posto all’ingresso “ I care “,  mi importa, mi sta a cuore. Enfatizzando, ma neppure tanto, mi verrebbe da dire che è lo slogan con cui la meglio gioventù americana, ha fermato la guerra del Vietnam.

In tempi nei quali c’è così tanta voglia di tornare al “me ne frego”, e l’egoismo imperante induce, oggi ancor più di allora, all’indifferenza più smaccata, questo anatema dell’indifferenza è anch’esso particolarmente attuale.

Non a caso papa Francesco e un personaggio di grande statura morale come Liliana Segre, battono spesso sul tema dell’indifferenza come uno dei mali del nostro tempo. Anticipatore, don Milani, anche in questo  caso,

Di un tema di prima grandezza, colto dalla realtà della tanto discussa “contestazione” della gioventù americana, e non solo.

Don Milani, un personaggio del paradosso, dei paradossi

Nasce ebreo, diventa prete cattolico. E che prete con la sua radicalità evangelica.

Ama appassionatamente la sua Chiesa. E ne è ricambiato con cattiverie e ostilità.

Nasce ricco borghese e sposa totalmente la miseria contadina montanara.

È il ricco che va in paradiso: attraverso la scelta della povertà.

È il cammello che passa dalla cruna dell’ago

“Uomo di grande cultura, intelligenza, forza polemica passa per la non cultura di un popolo di montanari” (Ronchi)

Cresce fra Firenze e Milano e finisce esiliato in un luogo insignificante dove resterà ben 13 anni fino alla morte.

Anticipa, da profeta, battaglie di civiltà e di liberazione delle coscienze e viene punito come uomo e come sacerdote.

Insegna il rispetto della legge, viene condannato dalla legge.

Di carattere rude (“urticante” dice Ichino, ”duro come il diamante” dice il papa) ha sentimenti e gesti di affetto dolcissimi.

Come si fa a non essere affascinati da una personalità così ricca e poliedrica?

“Come si può non amare un uomo come te, Lorenzo”!

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Benito Boschetto

Aretino di nascita, fiorentino di formazione, milanese di adozione. allievo di padre Ernesto Balducci. Top manager in aziende pubbliche e private (Camere di Commercio, Borsa Spa, Società immobiliari, organizzazioni no profit). Analista politico. Socio fondatore della Associazione ONLUS Macondo Ha sviluppato progetti di cooperazione e solidarietà a favore del popolo palestinese.

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PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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