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E’ ancora carico di eternit, ma un po’ meno pericoloso, l’ecomostro del Parco del delta del Po, l’impianto pilota dell’ex Sivalco di Valle Campo, dove in passato si è cercato di allevare l’anguilla in cattività. Oggi il rudere ha un nuovo recinto e dopo 18 anni, diverse segnalazioni e denunce dei media, è stata sgomberata una piccola parte dell’amianto che lo ricopre. Le lastre usurate si erano staccate dal corpo centrale del capannone – esponendo alle intemperie trattori e marotte, le imbarcazioni adibite al trasporto di anguille vive dalle stazioni di pesca ai mercati di vendita – e avevano cominciato a svolazzare tutto intorno. I fogli verdi e le pericolose fibre di cui sono composti sono stati smaltiti dopo il sopralluogo della padrona di casa, la Regione, e della Provincia che ha messo mano alla parziale bonifica. Ma la sostanza non cambia, la “verde” Sivalco è ancora lì, quasi immutata, a fianco della finestra dei fenicotteri, il garofano all’occhiello del Parco.

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Blocco centrale con copertura di eternit

L’amianto può attendere e anche i rifiuti speciali, rimanenze di laboratorio ancora chiuse nelle bottiglie con tanto di etichette farmaceutiche, le barche sfasciate e i macchinari ridotti a rottami. Restano lì, divorati dalla ruggine e dall’umidità, ospiti di fatiscenti palazzine a un piano dalle porte divelte, dove acqua, topi e arbusti vivono in simbiosi. E’ il degrado, ma non è emergenza. E la crisi non facilita i lavori di bonifica. E’ vero, ma va pure scritto che fino al 2008 il portafogli della pubblica amministrazione non risultava leggero come quello attuale. C’è da chiedersi come mai, l’invocato sviluppo del turismo naturalistico non abbia reclamato, in anni meno difficili, la trasformazione dell’ecomostro in un pezzo di archeologia industriale come è successo altrove.

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Macchinario di laboratorio
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Flaconi di medicinali

Gli esempi non mancano, basti pensare al villaggio operaio di Crespi d’Adda e al Museo dell’arte della lana ricavato nello stabilimento dell’ex lanificio di Stia per capire quanto una metamorfosi possa incontrare le simpatie di un pubblico curioso e appassionato di scoprire l’identità di una terra diversa dalla propria. Invece il ritornello è sempre lo stesso: niente soldi, niente opere. Possibile che le decantate joint venture pubblico-privato non diventino l’occasione di un recupero a misura di turismo slow? Eppure la cultura può essere business, lo sostengono da tempo gli stessi imprenditori rivieraschi. L’attenzione però sembra concentrarsi tutta sulla costa e sull’atteso riconoscimento Unesco della riserva del Delta, vissuto come la panacea del pacchetto turistico da spendere tra i due parchi emiliano e veneto

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Vasche per l’allevamento delle anguille

Nel frattempo, per migliorare la situazione dell’ex Sivalco, basterebbe un pannello scritto con cui spiegare la storia della struttura, la cui presenza e condizioni d’abbandono contrastano con la bellezza della valle oggi mèta sempre più frequente di villeggianti e visitatori stupiti dal trovarsi improvvisamente di fronte a un “fantasma” di pietra dalle tettoie ondulate. Mica gli si può dar torto, magari qualche spiegazione sì.

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lavoriero

Con o senza l’ombrello Unesco, una cosa è chiara: è mancata la volontà politica di trovare una soluzione per gli edifici in disarmo dell’impianto. In un passato nemmeno troppo lontano la dirigenza del parco ne aveva chiesto l’affido alla Regione, c’era l’idea di usare la struttura per realizzare progetti legati all’energia alternativa o a un mix di storia e arte, che prima della crisi avrebbero trovato finanziamenti con maggior facilità. Non se ne è fatto nulla e la struttura è diventata il monumento di uno dei tanti sprechi di denaro pubblico, tanto da aver chiuso i battenti nel 1996 con un debito di 17 miliardi di ex lire. Fallimento su tutta la linea.

Sivalco, società che vedeva insieme Regione, Comune, Provincia, Ersa e Sopal, gestiva l’impianto sperimentale divenuto centro ricerche a fine corsa; i dipendenti vennero assorbiti da Arpa di Ferrara e Ravenna e della liquidazione della spa se ne occupò il consorzio Azienda speciali Valli di Comacchio, partecipato da Regione e Comune. Di storie così ce ne sono tante, ma quando si consumano a pochi passi da casa diventano più amare. Soprattutto in tempo di crisi.

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Monica Forti


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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