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“La pace era appesa a un sottile capello”, sono le parole di un grande poeta e romanziere russo, Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, che oggi vogliamo riscoprire insieme, a conforto di tutti coloro che fermamente credono nell’indipendenza della letteraria e cultura di un popolo dalla follia di alcuni dei suoi governanti. Ho sempre seguito e amato la letteratura russa, fin dai tempi del liceo classico, curiosità e conoscenza rafforzate durante la mia vita lavorativa moscovita, che mi aveva portato anche a raccontare storie dalla Russia in una sorta di diario su questo stesso giornale (Sochi e dintorni: focus sulla Russia). Non posso oggi non rimpiangere quei tempi dove la bellezza e la scoperta dominavano su qualsiasi altra logica. Ma la letteratura resta, con la sua forza prorompente, ad illuminare le menti e le coscienze e a tracciare una strada che pare perduta per sempre. Ma che, grazie a lei, si può sempre ritrovare. O almeno, una volta giunti al bivio, provare a scegliere il cammino che ci pare più giusto per noi e per tutti. Dicevo, eccoci allora a ricordare che già in passato l’uomo letterato-scrittore-ma anche uomo comune si è trovato con la faccia al muro; d’altronde, la storia si ripete.

Ho ritrovato un libricino quasi miracoloso e terribilmente attuale, Condannato all’immortalità: due scritti autobiografici e una piccola antologia di poesie di un mito vivente della poesia mondiale, il russo Evgenij Aleksandrovič Evtušenko. Non so, sinceramente, quanto questo poeta, romanziere, autore di pellicole cinematografiche e professore emerito di letteratura e cinematografia sia noto in Italia. Per chi non lo fosse ricordo solo qualche nota biografica. Nato nel 1933 in Siberia, nipote di nonni arrestati come “nemici del popolo” nel 1937, durante il terrore staliniano, Evtušenko fu espulso dalla scuola, nel 1948, per “disubbidienza”. I suoi primi versi furono pubblicati nel 1949, il suo primo libro nel 1952. Nel 1957 fu espulso dall’istituto di Letteratura per il suo “individualismo” e le sue poesie divennero la prima voce solitaria contro lo stalinismo. Nel 1960, fu il primo russo a varcare la cortina di ferro e a recitare i suoi versi in Occidente.

Nel 1961 pubblicò Babi Yar, i suoi versi contro l’antisemitismo che ispirarono al grande compositore russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič la sua Sinfonia n. 13.

Da allora Evtušenko ha visitato 94 Paesi e le sue opere sono state tradotte in 72 lingue. Ha scritto e diretto due opere cinematografiche: Giardino d’infanzia nel 1982 e, nel 1990, Il funerale di Stalin, con Vanessa Redgrave e Claus Maria Brandauer.
Ha fatto sentire la sua voce contro i processi dei dissidenti, i carri armati sovietici in Cecoslovacchia e, con il fisico nucleare Andrej Dmitrievič Sacharov, ha fondato la prima associazione russa antistalinista, Memorial. Ha prestato la sua opera, dal 1988 al 1991, nel primo parlamento russo liberamente eletto, dove si è battuto contro la censura e altre restrizioni. Quando però, nel 1994, è stato invitato dal presidente Eltsin a ricevere dalle sue mani l’alta decorazione russa Ordine dell’Amicizia tra i Popoli, Evtušenko l’ha rifiutata, non approvando la guerra in Cecenia. Nel 2004, per il suo lavoro letterario, Evtušenko è stato insignito di una delle più prestigiose medaglie della Russia, quella per le grandi realizzazioni per la Madrepatria. È morto a Tulsa il 1° aprile 2017.

Oggi abbiamo un motivo in più per ricordarlo, anzi due.

Il primo riguarda un evento legato a questa terribile guerra in Ucraina: settimane fa, il 1° marzo, per la precisione, missili russi hanno bombardato Babi Yar, nella periferia di Kiev, quel luogo di massacri compiuti dalle forze della Germania nazista durante la campagna contro l’Unione Sovietica nella Seconda guerra mondiale.

Memoriale massacro Babi Yar, 1941 (AP Photo/Efrem Lukatsky)

Particolarmente documentato e noto fra tali massacri, fu, infatti, quello compiuto tra il 29 e il 30 settembre 1941, in cui trovarono la morte oltre 33.000 ebrei di Kiev, secondo il dettagliato rapporto fatto da personalità e militari tedeschi Fu uno dei tre più grandi massacri della storia dell’Olocausto, superato solo dal massacro della Operazione Erntefest in Polonia, nel 1943, con più di 42.000 vittime e dal Massacro d’Odessa con più di 50.000 ebrei nel 1941. La Shoah denomina l’eccidio come “massacro della gola di Babi Yar”.

Oggi, ancora una volta, capiamo che l’orrore non ha fine e che l’essere umano sembra non avere alcuna memoria. Gli errori continuano, la sofferenza non si ferma, non arretra. Odio gratuito. Eccoci allora qui a riportare alla mente, grazie al ricordo di Maria, una cara amica e collega esperta di storia, letteratura e lingua russe, una famosa poesia del grande artista russo dedicata a quel terribile massacro, quello stesso terribile luogo di sofferenza indecente. Per tutte le vittime.

Non c’è un monumento

A Babi Yar

Il burrone ripido

È come una lapide

Ho paura

Oggi mi sento vecchio come

Il popolo ebreo

Ora mi sento ebreo

Qui vago nell’antico Egitto

Eccomi, sono in croce e muoio

E porto ancora il segno dei chiodi.

Ora sono Dreyfus

La canaglia borghese mi denuncia

e mi giudica

Sono dietro le sbarre

Mi circondano, mi perseguitano,

mi calunniano, mi schiaffeggiano

E le donne eleganti

Strillano e mi colpiscono

con i loro ombrellini.

Sono un ragazzo a Bielostok.

Il sangue è ovunque sul pavimento

I capobanda nella caverna

Diventano sempre più brutali.

Puzzano di vodka e di cipolle

Con un calcio mi buttano a terra

Non posso far nulla

E invano imploro i persecutori

Sghignazzano “Morte ai Giudei”

“Viva la Russia”

Un mercante di grano

picchia mia madre.

O mio popolo russo

So che in fondo al cuore

Tu sei internazionalista

Ma ci sono stati uomini che con le loro

mani sporche

Hanno abusato del tuo buon nome.

So che il mio paese è buono

Che infamia sentire gli antisemiti che

senza la minima vergogna

Si proclamano.

Sono Anna Frank

Delicata come un germoglio ad Aprile

Sono innamorato e

Non ho bisogno di parole

Ma soltanto che ci guardiamo negli occhi

Abbiamo così poco da sentire

e da vedere

Ci hanno tolto le foglie e il cielo

Ma possiamo fare ancora molto

Possiamo abbracciarci teneramente

Nella stanza buia.

“Arriva qualcuno”

“Non avere paura

Questi sono i suoni della primavera

La primavera sta arrivando

Vieni

Dammi le tue labbra, presto”

“Buttano giù la porta”

“No è il ghiaccio che si rompe”

A Babi Yar il fruscio dell’erba selvaggia

Gli alberi sembrano minacciosi

Come a voler giudicare

Qui tutto in silenzio urla

e scoprendomi la testa

Sento che i miei capelli ingrigiti

sono lentamente

E divento un lungo grido silenzioso qui

Sopra migliaia e migliaia di sepolti

Io sono ogni vecchio

Ucciso qui

Io sono ogni bambino

Ucciso qui

Nulla di me potrà mai dimenticarlo

Che l’“Internazionale” tuoni

Quando l’ultimo antisemita sulla terra

Sarà alla fine sepolto.

Non c’è sangue ebreo

Nel mio sangue

Ma sento l’odio disgustoso

Di tutti gli antisemiti

come se fossi stato un ebreo

Ed ecco perché sono un vero russo.

Il secondo motivo è legato a quel piccolo libro che citavo, Condannato all’immortalità, edito in Italia da Interlinea nel 2008.
Vi voglio semplicemente condividere una poesia e l’incipit di un saggio qui compresi.
I brividi, per l’attualità cui ci riportano. 

Voglia il Cielo

Voglia il Cielo che torni la vista ai ciechi

e si raddrizzino le schiene ai curvi.

Voglia il Cielo non farci attaccati al potere

né falsamente eroi

e farci essere ricchi, ma ladri no,

naturalmente se è possibile ciò.

Voglia il Cielo farci vecchie volpi,

che cadano in nessuna tagliola,

e non farci vittime, né boia,

mendicanti neppure, né signori.

Voglia il Cielo che siano poche le ferite,

nel caso di una grossa rissa,

e che tanti paesi possiamo avere,

senza però il proprio dover perdere.

Voglia il Cielo che la nostra terra

non ci prenda a pedate.

Voglia il Cielo che le mogli ci amino,

anche se scalcinati.

Voglia il Cielo che ai falsi si serri la bocca,

udendo voce divina in un grido infantile,

che Cristo ravvisiamo nei vivi,

sua in volto d’uomo, sia femminile.

Non la croce portiamo – l’empietà

e come miseramente ci curviamo.

Per non avere in tutto sfiducia piena,

voglia il Cielo Dio in noi, anche se appena.

Voglia il Cielo che tutti abbiamo tutto,

e subito, perché non ci sia offesa.

Tutto sì, ma solo ciò per cui

non dobbiamo vergognarci poi.

1990

 

La pace era appesa a un sottile capello

D’un tratto nella noia trasalirono

Palme e ornelli.

La pace era appesa a un sottile capello

Della calvizie di Nikita….

La crisi caraibica nel novembre 1962 consisteva non solo nel conflitto Urss e Usa, ma anche nel conflitto tra il giovane Fidel Castro, circondato da un’aureola romantica, e la politica sovietica – goffa e talvolta semplicemente scorretta. Veramente, nel caso della crisi caraibica, la scorrettezza era dettata dalla fretta, quando la pace era letteralmente appesa a un sottile capello. Allora pochi capivano che due personalità assolutamente bipolari, a rigor di logica, per primi avevano compreso che erano costretti dalla storia a farsi partner, per la salvezza del globo terrestre dalla possibile distruzione. Il primo era un contadino del villaggio di Kalinovsk, giunto al potere dalla miseria, dal terrore di ogni notte di fronte all’arresto, negli anni del terrore staliniano (…). Il secondo era figlio di un milionario americano (…).

Entrambi questi leader (…) davano a tutti i futuri presidenti un invitante esempio di ciò che sono quei momenti in cui la politica di per sé, con tutte le sue ambizioni e gli apparenti grandi obiettivi, appare insignificante se confrontata con il problema della salvezza della vita sulla Terra, per la cui causa vale la pena rinunciare a tutto il resto e accordarsi umanamente. Tenere presente questo è assolutamente vantaggioso, proprio adesso, perché nell’aria instabile, sempre trasalente per le esplosioni, si delineano una certa quantità di potenziali sottili capelli, ai quali è di nuovo possibile appendere il sunnominato mondo, e non è chiaro se saranno abbastanza resistenti, come quello semidimenticato-indimenticabile della pelata di Nikita Sergeevic, che, a volte, infervoratosi, diventava di porpora e evidenziava le protuberanze, ma che, pure rapidamente, rassicuratosi, livellava la sua superficie. Nel diretto conflitto Usa-Russia non credo. Per esso non esistono motivi logici diretti (…) Meglio non darsi delle arie, ma scambiarsi l’esperienza dei propri errori e non ripeterli. (…) .  

Non si devono trasformare gli altri Paesi in carte da gioco, cercando di vincere l’un l’altro. Questo gioco per la vittoria si trasforma in una reciproca sconfitta e vince qualche terzo, e non si conosce ancora se per il bene (…). Le grandi potenze nucleari (…) devono accettare le piccole nazioni e non contrastarle. Anche i problemi interni possono diventare sottili capelli, che non reggeranno il carico appeso loro2003-2005

Foto in evidenza di Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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