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Il buono e il cattivo della vita è sempre una questione soggettiva. È vero che c’è crisi, ma mica tutti la soffrono? Anzi nella crisi c’è sempre chi giova di guadagni e privilegi maggiori e in continua crescita. Quindi le cose non vanno bene o vanno male, non sono buone o cattive in assoluto, ma anzi, a seconda di chi coinvolgono, la realtà può assumere sfaccettature molto diverse.

Tasso disoccupazione Italia: nell’ultimo anno e mezzo il livello sembra stabilizzato tra 11 e 12%

La disoccupazione per alcuni, e di sicuro per quel 11,5% di disoccupati italiani (dato Istat febbraio 2017), è un disastro, la cosa peggiore che gli potesse capitare. Per noi, che ancora lavoriamo, magari meno. Per noi la vita scorre normale ed una giornata di sole è ancora una festa.
E scorre ancora più normale per quelle persone che non hanno mai fatto la fila per prenotare una visita specialistica alla AUSL, gli amministratori delegati che vivono di azioni, derivati, speculazioni ai quali le crisi fanno guadagnare ancora di più. Tutto normale per quelle persone che percepiscono dividendi e stipendi a prescindere dai risultati, a prescindere o meno se l’azienda privata o statale o partecipata che gli è stata affidata ha reso un servizio buono alla cittadinanza oppure è fallita e i costi sono stati spalmati sulla collettività. E si gode la giornata di sole pure chi gestisce le banche, protetti dall’azione giudiziaria grazie all’azione legislativa della politica.
Ma come si inquadrano il lavoro e le percentuali di disoccupazione tra le varie esigenze? Di solito per il cittadino normale il lavoro è lavoro e più ce n’è… meglio è. Semplice buon senso da provinciali, certo.
Per quelli che hanno studiato e poi sono diventati economisti e magari sono stati anche assunti dalla Commissione Europea, esiste invece un livello di disoccupazione ottimale, una disoccupazione minima, strutturale … a chi o a cosa verrebbe da chiedere. E in effetti se non fosse persino tragico verrebbe da sorridere.
Il loro strumento per dirci quanta disoccupazione serve al sistema per funzionare bene (…bene per chi?) si chiama Nawru: ‘not accelerating rate of unemployment’, quel livello di disoccupazione che non ti fa crescere l’inflazione. Cioè, secondo alcuni, il ragionamento è: se avessimo troppi occupati questi pretenderebbero di comprare troppi beni e servizi e le aziende, a causa dell’aumentata domanda, sarebbero ‘costrette’ ad aumentare i prezzi (sì, questo è il neoliberismo, il cosiddetto ‘pensiero classico’) e allora ci dobbiamo mantenere in equilibrio in modo che i salari aumentino in maniera costante, non si impennino, e l’aumento dei prezzi (cioè l’inflazione) si mantenga altrettanto costante.
Lo so, sempre la maledetta inflazione che insieme al debito pubblico guidano il mantra del “ce lo chiede l’Europa, la stabilità, l’equilibrio di bilancio, l’animaccianeradituononno”.

Senza voler forzare il discorso potrei anche aggiungere che con un livello di disoccupazione alto si mantiene meglio il controllo delle masse, che siamo noi, basse pretese e accettazione dell’inevitabile. Cioè, se ci capitasse di essere parcheggiati in un corridoio di ospedale su una barella per mancanza letti ci verrebbe più facile concepire l’idea che affidare gli ospedali ai privati potrebbe migliorare le cose. Cioè sarebbe meglio affidarli a quelli che non fanno la fila all’Ausl, amministratori delegati, Black Rock, derivati, ecc… Il cerchio si chiude, è un attimo e nemmeno ce ne siamo accorti.
Ora il Nawru viene utilizzato insieme al Nairu, ‘non accelerating inflation rate of unemployment’, e tutti e due questi sistemi pretendono di fare calcoli, che devono poi regolarci la vita, presumendo però due cose: la crescita potenziale del pil; che i mercati devono tendere (o tendono) all’equilibrio da soli.

Il barista all’angolo è già in fibrillazione. Anche lui si è accorto, infatti, che sono anni oramai che gli economisti non riescono a beccare una previsione di crescita e che di questa storia dell’equilibrio dei mercati non se ne può più. Quante crisi ci vorranno ancora, quante aziende dovranno chiudere, quanta aria dovrà essere infettata e maiali riempiti di antibiotici dovremo mangiare, prima che si ammetta che i mercati liberi e auto equilibrati non funzionano? E soprattutto non hanno mai funzionato per quelle persone che la mattina, dopo cornetto e cappuccino, vanno a lavorare?

Ma come dicevo all’inizio, è una questione di visuale: ognuno la vede a suo modo e qualcuno vince e qualcuno perde (sempre la massa).

Secondo la commissione europea il Nawru nell’eurozona dovrebbe attestarsi al 9%, per l’Italia si stima il 10,7% per il 2017 e il 10,8% per il 2018. Cosa vuol dire? Che se nel 2017 l’Italia raggiungesse il livello di disoccupazione previsto, le sarebbe impedito di effettuare spesa in deficit per continuare a diminuirla, le sarebbe concessa ancora meno flessibilità! In quel caso anzi, si riterrebbero giuste ulteriori politiche di austerità, del resto la prima austerità è quando allo Stato viene impedito di fare deficit.

Lo stesso Matteo Renzi faceva notare in Parlamento, qualche tempo fa, che la Spagna stava crescendo più dell’Italia solo perché spendeva di più. E se lo ammetteva anche Renzi… potrebbe essere un concetto estendibile a tutti: lo Stato è l’unica entità a poter creare le condizioni perché i fattori in campo possano modificarsi. Cioè fregarsene del NAWRU, aumentare il livello del deficit statale e quindi spendere di più per creare più opportunità di lavoro, sostenere le aziende semplificando il credito e modificando la tassazione.

In fondo l’unico tasso strutturale di disoccupazione a cui dovremmo tendere è lo 0%. Ma se tutti avessero un lavoro e quindi pieno diritto di partecipazione alla vita sociale e politica senza l’inganno della scarsità a frenare le iniziative, comincerebbe a essere più difficile rubare risorse agli altri e giustificare privilegi.

Per l’ultima riflessione ci affidiamo ad un grafico

Si vede chiaramente un tasso di disoccupazione che cala vertiginosamente ma purtroppo non riguarda l’Italia bensì il Giappone!
Questo grafico ci racconta, in buona sostanza, che uno Stato con un debito pubblico al 240%, e che continua ancora a spendere, riesce a far diminuire la disoccupazione. Non gli aumentano gli interessi sui titoli di Stato e non è in calendario il suo default. Staremo sbagliando qualcosa?

Fonte dati e ispirazione per articolo:
http://www.fef.academy

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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