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Buongiorno, sono il signor Nessuno e auguro a tutti un buon Natale. E mentre ci sono vorrei, nella mia umile veste di Nessuno, dire due parole (due… si fa per dire) a chi avrà sorte, pazienza e voglia di leggere.
Parlerò di tutto un po’, quindi, se non avete nient’altro da fare, mettetevi comodi e fate attenzione (sennò “vaya con Diòs y buena suerte” come direbbe il mio amico Pablo di Pamplona).
L’Italia era il Belpaese, ribadisco era perché non lo è più da un pezzo. Chi vi dice il contrario o vive su Marte o è in malafede, scegliete una delle due perché altre opzioni non esistono. La nostra classe politica, che tuttora parla di Belpaese, di progresso e di grandi opportunità, siccome non vive su Marte, ma bivacca ahinoi tra Montecitorio e palazzi limitrofi, è senz’altro in malafede.
I miei ricordi di bambino e poi di ragazzo sono di un remoto Belpaese, in cui uomini con idee buone e senza l’aiuto di nessuno, tanto meno dello Stato, si spendevano in fatica e salute, oltre a spendere i propri denari, per creare imprese (piccole e medie imprese, poi, col sudore e l’ingegno, imprese sempre più grandi) che creavano cose… Sissignori avete capito bene: cose! Oggetti, strumenti, invenzioni. Idee che diventavano tangibili e utili a tutti nella vita di ogni giorno. Certo ci voleva coraggio, perché il fallimento era sempre dietro l’angolo; ma lo Stato, se anche non ti aiutava, almeno non ti intralciava e non ti vessava di tasse, imposte, gabelle, diritti, permessi, bolli, autorizzazioni, regole, e poi ancora tasse, eccetera eccetera.
Si chiamava industria manifatturiera, signori miei, ed era il nostro fiore all’occhiello nel mondo!
L’industria manifatturiera italiana nacque e si sviluppò già nel Medioevo per lavorare e trasformare le merci che arrivavano da luoghi esotici e remoti, ma non solo. Perché non è vero che siamo solo un popolo di santi, poeti e navigatori; questa storia, inventata certo da uno che italiano non era, oppure da qualche capopopolo aduso a semplificare i concetti per darli in pasto alla solita e pecoreccia massa plaudente, trascura una realtà secolare fatta di mercanti dal fiuto per gli affari e di eccelsi maestri artigiani che nulla avevano da invidiare ai più quotati colleghi artisti. E se l’Italia, nei secoli, ha prodotto oggetti la cui qualità e il pregio sono riconosciuti, pur controvoglia, da tutti nel mondo, è grazie a lui: al nostro artigianato!
Dal campo tessile, dell’abbigliamento e dell’arredamento (un capitolo a parte poi meriterebbe il nostro universo alimentare-enologico, il più ricco del pianeta che i nuovi trattati internazionali vorrebbero smantellare… ma questa, appunto, è un’altra storia) fino al settore più di prestigio, quello del lusso: dal design d’autore agli oggetti preziosi d’alto artigianato, dalla nanotecnologia ingegneristica fino ad arrivare alle supercars, tipico must in cui l’Italia compete da sempre coi migliori marchi internazionali… ancora oggi, nonostante tutto. Ma, cambiando direzione, anche il settore meccanico delle macchine a controllo numerico ad esempio (lo nomino tra gli altri soltanto perché è un settore in cui ho lavorato per qualche anno) ci ha sempre visto tra i primi della classe, assieme ai soliti tedeschi… ovviamente.
E il nostro comune denominatore era sempre quello: la qualità. Caratteristica per cui ovunque nel mondo compravano i nostri oggetti, li cercavano senza badare a spese perché erano i migliori che si potessero trovare, per qualità costruttiva e di materiali usati, ma pure per bellezza e gusto… semplicemente perché erano made in Italy!
Ma oggi è ancora così? E se sì, fino a quando? È da anni che stiamo perdendo treni su treni che sarebbero serviti per cercare di restare al passo con i processi di cambiamento globale in atto e poter così garantire un futuro prospero al nostro cosiddetto bel… paese… E la nostra classe politica ha fatto del suo meglio per farceli perdere tutti!
Una classe politica che ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. Una classe politica che ha aperto indiscriminatamente le porte ai prodotti industriali a basso costo dell’Asia, prodotti che rientrano nelle stesse tipologie merceologiche comuni nel nostro settore artigianale e che di fatto stanno distruggendo, se non l’hanno già distrutto completamente, l’intero comparto manifatturiero italiano, una volta leader assoluto almeno in Italia. Una classe politica che ha firmato una sfilza di trattati sull’Euro impegnandosi in politiche di austerità, ma senza avere nulla in cambio per garantire la competitività delle proprie imprese a livello nazionale e internazionale. Una classe politica che ha firmato la Convenzione di Dublino sui confini dell’UE ben sapendo che l’Italia non è neanche lontanamente in grado di pattugliare e proteggere i suoi confini (e lo dimostrano le continue tragedie di immigrati in mare e il loro afflusso ormai incontrollabile nel nostro territorio). Una classe politica che si è supinamente sottomessa alle decisioni dei burocrati di Bruxelles che hanno sempre avuto il solo scopo di garantire la stabilità finanziaria della “zona euro” a qualunque costo, anche a quello di distruggere le economie nazionali (ad esclusione di quella tedesca… sempre ovviamente)!
Per quel che ci riguarda il gioco è sempre stato al ribasso: produttività, lavoro, stipendi, potere d’acquisto e qualità. Ma soprattutto la qualità, come la qualità dei nostri prodotti e dei nostri servizi, entrambi in caduta libera, per finire alla qualità della vita, sempre più incerta e striminzita come i nostri nuovi e aggiornati conti correnti bancari (esisteva un tempo il detto degli “italiani, popolo di risparmiatori”, anche questo ormai relegato ai ricordi di un passato che fu).
Un amico olandese, tempo fa, ha detto di noi italiani più o meno così: “Bisogna essere dei geni a governare un paese come il tuo (parlava col sottoscritto), che ha un clima favorevole tutto l’anno (il tempo ad Amsterdam è spesso pessimo), una natura così bella e varia (in Olanda solo mulini a vento e tulipani), una storia millenaria ricca d’arte e cultura come da nessun’altra parte al mondo (loro più o meno cinque secoli, dai fiamminghi olandesi a De Stijl), e riuscire nell’arco di pochi decenni a mandare tutto a puttane! Solo dei geni, perché nemmeno dei pazzi furiosi ci potrebbero riuscire!” Quella volta non ci provai nemmeno a controbattere, mi limitai ad offrirgli una birra… italiana!

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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