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Stop alla cessione dei crediti:
uno schiaffone ai redditi medio-bassi … e addio alla transizione ecologica

Nella giornata del 16 febbraio, con una decisione improvvisa, il Consiglio dei ministri ha messo mano al sistema di incentivazione relativo agli interventi in edilizia e all’efficientamento energetico (non solo il cosiddetto Superbonus 110%, ma anche gli altri bonus relativi all’ edilizia) decidendo che non si poteva proseguire con il meccanismo della cessione dei crediti e dello sconto in fattura.

Penso valga la pena scavare maggiormente su cosa significa quest’intervento, alzando lo sguardo rispetto al tema del blocco dei lavori in corso, del rischio delle ripercussioni immediate negative sull’edilizia, se non di veri e propri fallimenti di numerose imprese e sui cosiddetti ‘crediti incagliati’ (quelli già in essere che non riescono ad essere ceduti al sistema bancario che ha raggiunto i limiti di acquisto, stimati almeno a 15 miliardi), tutte questioni vere e importanti, su cui si sono soffermati la gran parte dei commenti, ma che non vanno a fondo sulla reale portata di questa scelta.

Intanto, è utile guardare al metodo che è stato praticato, quello di una decisione repentina, presa senza nessuna consultazione con le parti sociali e i soggetti interessati, che sono stati convocati a cose fatte e sostanzialmente per produrre una discussione volta a lenire le conseguenze immediate e più gravose della scelta. Un metodo certamente non nuovo, da ultimo applicato anche alla vicenda delle accise sulla benzina, ma che, stavolta, balza agli occhi per la celerità che l’ha contraddistinto.

Emerge chiaramente come la Presidente del Consiglio voglia dare immagine e sostanza ad un’idea thatcheriana dell’approccio e della soluzione dei problemi: si decide in fretta, non c’è alternativa a quanto messo in campo, al massimo si possono produrre alcuni aggiustamenti.

E questo decisionismo viene finalizzato a far crescere l’identificazione tra la figura del premier e la volontà popolare e quest’ultima con l’idea di Nazione: un’operazione culturale che non va sottovalutata, visto che, come dimostrano altre vicende – da ultimo la vergognosa risposta del ministro Valditara alla lettera della preside fiorentina – questa destra ha realizzato che quella in corso è non solo una battaglia sulle scelte di politica economica e sociale, ma riguarda l’egemonia culturale nella società.

Per tornare, però, alla questione Superbonus, vanno guardate le ragioni che hanno portato il governo a bloccare il meccanismo della cessione dei crediti e dello sconto in fattura.
La prima motivazione che viene avanzata è che la misura costa troppo e la spesa è fuori controllo.
In qualche modo, già il governo Draghi aveva segnalato tale problema, alludendo al fatto che si sarebbe dovuti intervenire.  Ancora in questi giorni, c’è chi, anche nell’area ‘progressista’, come gli economisti Boeri e Perotti, rilancia questa tesi, evidenziando come la spesa per il Superbonus, complessivamente 71,7 miliardi da quando venne istituito nel luglio 2020, sia assolutamente insostenibile.

In realtà, chi avanza questi ragionamenti, sottovaluta alcuni importanti risultati prodotti dal Superbonus, come si evince da un recente studio di Nomisma. Lì, viene messo in rilievo come quel provvedimento, oltre ad una riduzione significativa delle emissioni di CO2 in atmosfera e ad un incremento importante dell’occupazione (641.000 occupati nel settore delle costruzioni e di 351.000 occupati nei settori collegati), abbia prodotto un impatto economico complessivo pari a 195,2 miliardi di euro, con un effetto diretto nel settore edile e affini di 87,7 miliardi ed uno indiretto nei settori collegati di 39,6 miliardi cui si aggiungono 67,8 miliardi di indotto. Già nel 2021, un’analisi prodotta dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (CNI) aveva evidenziato che il disavanzo per le casse dello stato sarebbe stato compensato dalla generazione di PIL e che il Superbonus sarebbe stato sostenibile per la finanza pubblica nell’arco di 4 o 5 anni.

E qui veniamo alla seconda ragione, meno confessata e resa esplicita, che ha portato il governo ad intervenire.
In realtà, Eurostat (Istituto Europeo di Statistica), ha annunciato da poco che è in corso di revisione il sistema di contabilizzazione dei crediti di imposta sui conti pubblici e sul deficit pubblico.
Se, come possibile, il nuovo sistema dovesse concentrare nell’anno di nascita l’intero ammontare dei crediti di imposta , il deficit 2022 potrebbe schizzare verso il 9-10%, quasi raddoppiando il 5,6% indicato nell’ultima Nota di Aggiornamento di Economia e Finanza, aprendo un bel problema nei rapporti con l’Europa e, di fatto, impedendo qualunque intervento efficace di politica economica per il governo già con la prossima Legge finanziaria.

E allora che fa il governo? Abolisce il meccanismo della cessione dei crediti e dello sconto in fattura, che è quello che consente anche a chi ha redditi medio-bassi e agli incapienti di traslare il credito alle aziende fornitrici e agli istituti di credito.

Rimangono il Superbonus e le altre forme di incentivazione per le ristrutturazioni in edilizia, ma così facendo, lo si trasforma radicalmente, con due conseguenze molto pesanti e che, peraltro, chiariscono la cifra della politica economica e sociale di questa destra.
Intanto,
lo si diventare una norma classista: solo chi ha redditi medio-alti, chi cioè può anticipare i costi della ristrutturazione edilizia, potrà continuare ad usufruire delle agevolazioni. Basta pensare, come ha giustamente rilevato Leonzio Rizzo su lavoce.info, che per una spesa di 50mila euro, per essere capienti per l’intera detrazione spettante da suddividere in quattro anni, nel caso di un lavoratore dipendente, è necessario avere un reddito almeno pari a 43 mila euro. Quindi solo il 9 per cento dei lavoratori dipendenti sarebbe in grado di fruire pienamente della detrazione, mentre il rimanente 91 per cento ne perderebbe una parte.

In secondo luogo, si riduce di molto il perimetro degli interventi e dei relativi esborsi per i conti pubblici, lanciando il pericoloso messaggio che non ci sono le risorse per interventi di efficientamento energetico, per la riduzione delle emissioni climalteranti, più in generale per una seria politica di transizione energetica. Che fa il paio con l’opposizione del governo italiano alle intenzioni dell’Unione Europea di raggiungere elevati standards di risparmio energetico per le abitazioni entro il 2030 e chiudere la produzione di auto a benzina e diesel entro il 2035.

Nei fatti, si costruisce una contrapposizione forte tra le scelte che guardano alla transizione energetica e le possibilità concrete delle persone di condividerla e perseguirla.
E’ evidente, infatti, che, senza meccanismi forti di incentivazione per poter intervenire sulla ristrutturazione energetica delle abitazioni, così come per il passaggio all’auto elettrica, si genererà un’opposizione diffusa e popolare all’utilità e necessità di costruire un nuovo modello di produzione e consumo energetico.
Tutto ciò, peraltro, sta in coerenza con l’idea di fare dell’Italia l’hub del gas nel nuovo contesto geopolitico, di indicare questa come nuova priorità per rivisitare il PNNR, di abbandonare qualunque ipotesi di transizione energetica basata sulle rinnovabili e, invece, rilanciare l’economia del fossile.

Ovviamente, una strada diversa è possibile, oltre che utile. Sia per il Superbonus, rispetto al quale si tratta di uscire dal keynesismo un po’ facilone, spesso espressione di una cultura diffusa nel M5S ( più si fa spesa pubblica, più girano soldi e il tutto si ripaga da solo) per pensare ad un intervento pubblico maggiormente forte e mirato, da una parte, alla possibilità di accesso per i redditi medio-bassi e, dall’altra, agli obiettivi di efficientamento energetico. Sia per quanto riguarda le politiche per la transizione ecologica ed energetica, che dovrebbero essere assunte proprio come una delle questioni decisive per proporre un’alternativa di fondo all’attuale modello produttivo e sociale.
Il che significa anche prospettare un’opposizione culturale, sociale e politica, precisa e su un terreno forte, a questo governo, che non si muove semplicemente in continuità con gli interessi dei poteri forti, ma intende supportarli con una nuova narrazione ideologica regressiva e autoritaria.

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

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PAESE REALE

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