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Le conseguenze maggiori ricadono sui giovani, e non solo da un punto di vista ambientale ma anche sociale, economico, sanitario

L’accordo a cui sono giunti i leader riuniti a Glasgow per la COP26 è motivo di profonda delusione. Il documento non può soddisfare le grandi aspettative che la società civile, la comunità scientifica, i giovani e i popoli indigeni avevano riposto nel meeting britannico, considerato l’ultima spiaggia per affrontare in modo deciso la crisi climatica. Secondo Slow Food, si tratta di un accordo ampiamente insufficiente, considerata l’urgenza di agire per contrastare la crisi in atto. Una crisi che colpisce tutte e tutti noi e le cui conseguenze si misurano ogni giorno di più da un punto di vista non solo climatico e ambientale, ma anche economico, sociale, sanitario.
Se, a parole, l’accordo ribadisce l’impegno a limitare a 1,5 gradi centigradi il surriscaldamento della Terra rispetto ai livelli preindustriali (come stabilito in occasione della COP21 di Parigi, nel 2015), nei fatti gli impegni presi non risultano sufficienti ad assicurare che ciò accadrà. Inoltre, il testo finale della COP26 risulta indebolito per quanto riguarda il tema della decarbonizzazione (nel documento si parla di graduale riduzione invece che di graduale eliminazione dei combustibili fossili) e non affronta in modo serio e convincente il sostegno da offrire ai paesi più duramente colpiti dal cambiamento climatico.
«Siamo sgomenti per la mancanza di ambizione che emerge dai contenuti dell’accordo» commenta Marta Messa, direttrice di Slow Food Europa. «Per alcuni potrebbe essere degno di nota il semplice fatto che sia stato raggiunto un accordo, ma in realtà quanto concordato risulta essere di gran lunga insufficiente considerata la gravità della crisi climatica che stiamo vivendo. Le delegazioni che hanno preso parte alla COP26 se ne vanno da Glasgow lasciando la Terra sulla stessa rotta verso danni irreversibili al mondo naturale. Slow Food continuerà a lavorare sul tema del cambiamento climatico come ha fatto nei suoi oltre trent’anni di storia: unendo alle attività concrete la forza della propria rete di comunità, cittadini e attivisti di tutto il mondo, esortandoli a esercitare pressione sui decisori politici affinché agiscano immediatamente a ogni livello».
«La COP26 di Glasgow ha messo in evidenza il ruolo indiscutibile della società civile e dei giovani rispetto all’accordo di Parigi, che fu un accordo di élite tra politici, tecnici e scienziati. Senza il dibattito e l’enorme pressione che i movimenti giovanili hanno avviato in questi anni, di certo la sfida climatica non sarebbe al centro dell’agenda politica e del dibattito a tutti i livelli come sta avvenendo ora. Il cambiamento climatico è un’ingiustizia anzitutto per loro. Un clima che cambia così rapidamente causa inondazioni, siccità ed eventi atmosferici estremi, e di conseguenza anche migrazioni, carestie, instabilità politica e danni economici. E purtroppo anche queste conseguenze non-ambientali ricadranno sui più giovani» aggiunge Federico Varazi, vicepresidente di Slow Food Italia.
Secondo Shane Holland, presidente esecutivo di Slow Food nel Regno Unito, «è incredibile come in queste occasioni si continui a non prendere in considerazione il sistema alimentare industriale, che pure rappresenta la seconda causa di emissioni a livello globale. La COP26 avrebbe dovuto aprire la strada alla transizione verso sistemi alimentari basati sull’agroecologia, quelli cioè in grado di immagazzinare il carbonio nel terreno, proteggere la biodiversità, ristabilire la fertilità del suolo e favorire maggiori rese nel tempo, assicurando in questo modo la sopravvivenza delle aziende agricole e alimenti sani per tutti. Non ci può essere una vera transizione verso sistemi alimentari sostenibili senza una politica di finanziamento dei sistemi agroecologici che segua obiettivi vincolanti, cosa che nella dichiarazione finale della COP26 manca completamente».
Neanche Jorrit Kiewik, direttore esecutivo di Slow Food Youth Network, nasconde la sua delusione: «La COP26 era un’occasione fondamentale per la mia generazione, ma i nostri leader non hanno saputo guidarci nella giusta direzione. Mi sconvolge la mancanza di volontà dei decisori politici di rendere il mondo un luogo vivibile per le generazioni di oggi e di domani»

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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