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Non so se c’è una Casa del Popolo a Gorino, a Goro certamente sì. Negli anni Settanta – quelli che posso ricordare personalmente – era lì che pescatori, braccianti, operai (forse qualche raro studente) andavano a discutere la crisi imminente del capitalismo; era lì che ogni giorno trovavano il loro senso della vita e i loro momenti di svago. Un bar affumicato e affollato dagli uomini del paese al piano di sotto, scale esterne per salire al piano di sopra in una sala vuota e grande che aveva un piccolo tavolo per il relatore e molte sedie, che venivano occupate da poche persone assonnate – perché i giovani non ne vogliono più sapere… Erano più o meno così le Case del Popolo, un luogo di socialità, quando i mezzi di comunicazione odierni non esistevano, quando l’isolamento geografico di molte zone rurali aumentava le difficoltà nel contatto umano e culturale con il mondo.

Era lì che il mondo si divideva nettamente in due parti: i buoni e i cattivi, come nelle vecchie aule delle scuole elementari, ma lì solo i buoni erano presenti, i cattivi restavano fuori. Anche al bar si discuteva animatamente ogni sera, ma nella sala di sopra i compagni si ritrovavano in una specie di rosario in cui i mantra contro il capitale scandivano le tappe di un discorso sempre uguale. Rabbia e speranza, fiducia e fatica e delusione, “perché i giovani non ci credono più”. La crisi del capitalismo che avrebbe fatto crollare il mondo e generato un nuovo mondo dei giusti – di pace, di lavoro e libertà – tardava a palesarsi.

Molte persone per bene che lavoravano pensando che un giorno la crisi avrebbe travolto i padroni e dato ragione alle loro speranze di palingenesi. Persone per bene che alimentavano il loro senso di identità dividendo il mondo in due. Loro erano parte di una comunità chiusa, sostenuta dalla convinzione di essere dalla parte giusta.
Allora di globalizzazione non si parlava e neppure di migrazioni. E la solidarietà scaldava i cuori e si manifestava dentro i confini di un gruppo di uguali: uomini provati dalla dura fatica quotidiana, come in altri piccoli paesi confinati nel nulla. Sentimenti di abbandono e rivolte e un po’ di aiuti in una provincia come Ferrava che fronteggiava il dramma del sottosviluppo e uno spirito di separazione alimentato dall’isolamento geografico. Una comunità di uguali, perché tutti vivevano la stessa condizione di povertà. Una comunità si nutre di certezze; chiude i confini, si difende e attacca, riconosce solo i propri membri, è ostile a tutti coloro che ad essa non appartengono.

Tutta la sicurezza consolatoria alimentata in anni di tenace lavoro dei militanti del PCI non ha prodotto – né poteva produrre – consapevolezza del cambiamento in atto, non poteva produrre cultura – perché la cultura è laica – né poteva produrre un’idea di futuro utilizzabile per migliorare il mondo. La globalizzazione richiede altre categorie di analisi, uno sguardo lungo ai processi irreversibili che l’accompagnano, la capacità di distinguere ciò che si può migliorare e ciò che non può essere contrastato. Un messaggio fondato su credenze, che assumeva un’ipotesi infondata di futuro, non poteva produrre crescita culturale e nemmeno emancipazione (termine ricorrente al tempo), ma solo comunità incapaci di vedere che il mondo è diventato grande, ampio, talvolta spaventoso, altre volte sfidante e, talvolta, persino migliore. E forse questa è la cosa più difficile da accettare. Resta qualcosa di quella visione del mondo, resta lo spirito di isolamento che plasma identità perdenti, alimenta la nostalgia, resta un’idea di solidarietà chiusa nel proprio gruppo di appartenenza.

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Maura Franchi

È laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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