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“Alex Schwazer è un marciatore italiano, campione olimpico della 50 km a Pechino 2008. Dopo essere risultato positivo ad un controllo anti-doping alla vigilia dei Giochi olimpici di Londra 2012, venne squalificato dal Tribunale Nazionale Antidoping fino al 29 aprile 2016. Rientrato in attività in occasione dei Mondiali a squadre di marcia 2016, vince la 50 km ottenendo la qualificazione per i Giochi olimpici di Rio de Janeiro 2016. Il 22 giugno 2016 viene comunicato alla Fidal che Schwazer risulta nuovamente positivo ad un controllo anti-doping su un campione di urine prelevatogli in un controllo a sorpresa il 1º gennaio 2016 (la sostanza dopante sarebbe testosterone). Per questo la IAAF(Federazione Internazionale di atletica leggera) decide di sospenderlo in via cautelare in attesa della decisione finale. Il 10 agosto 2016 il TAS (Tribunale Arbitrale dello sport), considerata la seconda violazione delle norme antidoping, squalifica l’atleta per 8 anni. Come diretta conseguenza della squalifica, oltre a non poter partecipare ai Giochi olimpici di Rio 2016, tutti i suoi risultati sportivi del 2016 sono stati cancellati. Nei mesi immediatamente successivi emergono sospetti di un complotto ai suoi danni, anche grazie ad un’indagine condotta dal quotidiano La Repubblica, che danno via a delle indagini ufficiali dei RIS di Parma su indicazione del PM incaricato. Nel febbraio 2021 viene disposta l’archiviazione del procedimento penale ai danni dell’atleta per “non aver commesso il fatto”. (cit. Wikipedia).

In questi casi adoro Wikipedia. E’ capace di condensare in poche righe di esordio la parabola fondamentale del personaggio descritto, senza divagazioni inutili e senza troppi dettagli (a quelli si dedica nelle righe successive). Io quel 22 giugno 2016 me lo ricordo, nonostante di solito non ricordi nessuna data. Me lo ricordo perché pensai: cavolo, ci è cascato di nuovo, dopo lo psicodramma pubblico del 2012 nel quale ammise, in una confessione che mi apparve degna di un eroe tragico greco, di essersi dopato. E me lo ricordo, il 22 giugno 2016, perché pensai: ma come ha potuto farlo ancora? Come ha potuto ricaderci, dopo la catarsi pubblica attraversata durante il primo episodio? Perché io gli credetti, allora, nell’estate del 2012. Credetti alla tragedia intima della persona, alle parole amare con le quali raccontò delle ragioni del suo errore: dolore (anche fisico), esaurimento nervoso, nausea, angoscia da prestazione alimentata dalle enormi aspettative di sponsor, federazioni, burocrati che costruiscono rendite di potere sulle vittorie sportive. Credetti alla sincerità della sua confessione, certo che lo avrebbe trasformato da eroe negativo a persona normale, con l’unica incertezza legata all’abisso di depressione e ludibrio che si trovava ad affrontare, e dal quale mi augurai si riprendesse anche con la vicinanza dei suoi cari – cosa che purtroppo non funzionò per Marco Pantani, altra vittima illustre dello sport, quando lo sport è ghermito e schiacciato da una montagna di aspettative, interessi, loschi affari, e con lui l’eroe da Domenica del Corriere, stupefacente grimpeur tra le urla della folla nei tornanti, ma fragile e solo nelle stanze d’albergo.

Il 22 giugno 2016 provai una grande delusione, più per me che per lui, perché pensai che mi ero fidato di una sensazione percepita attraverso uno schermo televisivo, che stupida illusione. Oggi scopro che non mi sbagliavo: la seconda volta, Alex Schwazer non si era dopato. Era (è) caduto vittima di un enorme imbroglio internazionale ordito su mandato o con la complicità di IAAF(la Federazione Internazionale di Atletica) e WADA (l’ Agenzia Mondiale Antidoping). Gli hanno alterato la provetta. Il gip di Bolzano, Walter Pelino, nel disporre l’archiviazione dell’accusa nei suoi confronti, afferma “con alto grado di credibilità razionale che i campioni d’urina prelevati ad Alex Schwazer il primo gennaio 2016 siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica ed il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati”.

Quando l’agenzia mondiale antidoping trama in questo modo per far sembrare drogato un atleta, è come se Babbo Natale arrivasse in casa tua la sera della Vigilia mentre tu, che avrai tre anni, lo aspetti trepidante, si togliesse davanti a te barba e vestito rosso, si mostrasse per quel mostro che è in realtà e ti ghignasse sguaiato in faccia che è tutto un trucco, appiccando il fuoco ai pacchi regalo davanti ai tuoi occhi. Così, per il gusto di mostrarti che il bene è il male, e che forse, quindi, il male è il bene.

Nessuno mi toglie dalla testa che questa porcata è stata ordita non solo ai danni di Schwazer, ma anche contro Sandro Donati, l’allenatore che ha dedicato la vita alla lotta contro il doping nello sport, e che nel 2015 era diventato anche l’allenatore di Alex Schwazer. Quanti nemici si è fatto Donati nel corso della sua carriera, da quando a metà anni ottanta ha iniziato a denunciare il dilagare del doping nell’atletica, nel ciclismo e nel calcio? Tanti, a giudicare dall’enormità di quanto è successo (Donati per un periodo è stato egli stesso consulente della WADA). Del resto è proprio Donati ad affermare alla stampa che in questi 5 anni lui ed il suo atleta sono stati lasciati soli ad affrontare, come Davide, il Golia dei vertici corrotti dello sport mondiale.

Cosa c’entra il denaro, gli schei, con questa storia? C’entra eccome. I soldi c’entrano sempre. Dice sempre Donati: “Iniziai presto a capire che la radice del problema era la corruzione delle istituzioni. Forse all’inizio era un misto tra corruzione e scarsa consapevolezza. Ma negli anni successivi no. Gli effetti nocivi degli anabolizzanti e delle emotrasfusioni furono presto noti, ma non ci si fermò. Si trattava di istituzioni consapevoli e deliberatamente orientate alla ricerca del risultato ad ogni costo. Quello è stato un passaggio sconcertante, ho iniziato a dubitare delle mie scelte di vita. Ero dipendente del Coni e della federazione di atletica, come potevo andare avanti con questa gente? Presi subito posizione, forse anche con una certa ingenuità perché le mie sole forze non erano abbastanza. Mi resi presto conto dell’aggressività che le mie esternazioni suscitavano: ero quello che sputava nel piatto dove mangiava, che non si faceva gli affari propri. Tutti traevano vantaggio dal doping: le gare bisognava vincerle “.

Tutto questo sistema è funzionale alla creazione di un eroe invincibile, un personaggio sportivo con il quale riempire i giornali e vendere prodotti per anni, attraverso la sua immagine. E finché quello è il cavallo su cui puntare, potete stare tranquilli che nessuno lo toccherà, perché porta biada per tutti. Guardiamo alla vicenda di Lance Armstrong: ha vinto per sette anni consecutivi il Tour de France, dal 1999 al 2005. In quegli anni, nonostante le chiacchiere sulla reale natura delle eccezionali prestazioni sue e della sua squadra, la US Postal (a posteriori, Armstrong ammetterà di aver iniziato a doparsi dal 1993), non è mai incappato in un controllo che lo beccasse in flagrante. Dopo un primo ritiro, Armstrong si ripresentò nel 2009 con l’intenzione di rivincere il Tour, ma nel frattempo il cavallo su cui il sistema puntava e investiva era diventato Alberto Contador. Quando esci dal giro pulito e satollo e poi pretendi di rientrarci come se, nel frattempo, il giro non ti avesse rimpiazzato, il sistema non ti perdona. A quel punto le malefatte di Armstrong vennero prodigiosamente a galla tutte insieme, fino a provocare la revoca ex post di buona parte del suo palmares. Parliamo di un uomo che afferma lui stesso di essersi ammalato di cancro ai testicoli a causa, probabilmente, delle massicce dosi di ormone della crescita assunte nella prima parte della sua carriera. E’ naturale pensare che la sua impunità da cavallo vincente e la sua flagranza da invecchiato campione a caccia di revanche siano le due facce della stessa sporca medaglia. 

Adesso mi auguro che Alex Schwazer, che ha continuato ad allenarsi e ad allenare in questi anni bui, che ha subito l’onta dell’ignominia pubblica, atleta al quale è stata sbriciolata tutta la seconda parte della sua carriera sportiva, possa disputare le Olimpiadi di Tokyo. Non credo che potrà battere i cinesi, che sono l’equivalente contemporaneo, nella marcia, di quello che fu la Germania Est dell’atletica e del nuoto negli anni ’70. Non credo che la sua molla sia rappresentata da un obiettivo così irraggiungibile. Credo invece che gareggiare in mezzo al gruppo, nella sua ultima olimpiade, da atleta pulito che non potrà mai vincere contro un sistema sporco, davanti al mondo che lo ha messo alla gogna, potrà restituirgli un briciolo della dignità violata. Quanto al luridume di un apparato che sacrifica tutto, compresa la salute degli atleti, sull’altare della vittoria ad ogni costo, è appena il caso di dire che rappresenta il paradigma di un sistema che innerva tragicamente ogni campo della vita sociale.       

 

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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