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«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio»: questo testo del profeta Osea dice la cura di Dio per il suo popolo; di come egli continui ad amarlo senza pentimenti, anche se non ricambiato; anzi accrescendo sempre più questo amore: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1-5).

Si riaggancia a questo passo l’evangelista Matteo che, rivolgendosi soprattutto ai cristiani approdati dall’ebraismo, ricorre spesso a ‘citazioni di compimento’, tramite le quali egli mostra ai suoi come le promesse di Dio si siano realizzate nella storia in Gesù. Così troviamo frequenti espressioni come “Questo avvenne perché si compisse”, quest’altro “accadde come era stato detto dal profeta”. Anche l’episodio della fuga in Egitto e del successivo ritorno alla morte di Erode è riportato con questa intenzione. Anche in questa vicenda si deve leggere infatti il compiersi in Gesù della storia del suo popolo, «perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Mt 2,11).

L’evangelista Matteo vuole rendere consapevoli le sue comunità di giudeo-cristiani, che vivono nella diaspora della Siria, che proprio quel Gesù in cui credono è la Parola, che porta a compimento tutte le parole e le profezie di Dio rivolte a Israele. Nella pienezza del tempo, Dio fa conoscere in Gesù la sua parola definitiva, in risposta al grido del profeta Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi davanti a te sussulterebbero i monti» (Is 63,19). Gesù è parola fattasi carne di amore, non solo per il suo popolo eletto, ma attraverso Israele, donata a tutti i popoli e a tutte le generazioni della terra. Tutte le parole di Dio, quelle proferite nei tempi antichi, divengono nelle stesse parole di Gesù a pienezza. Il Padre, manifestandosi, in voce, nel battesimo del Figlio dice anche a noi: “Ascoltatelo”. Le sue promesse, come sementi nella terra d’Israele, divengono nel Figlio come chicchi pieni nella spiga da sparpagliare nel mondo attraverso l’annuncio del vangelo.

Ma siamo proprio sicuri allora che l’andata in Egitto, di cui da poco abbiamo fatto memoria nella liturgia, sia stata solo una fuga? Segretamente, nascostamente, non è stato per Gesù un andare là dove tutto era cominciato, dentro il cuore stesso di un popolo minacciato di sterminio, per condividerne le sorti? Al principio di una storia di liberazione, di riscatto dalla schiavitù e di promettente alleanza?

La sua fu certamente anche la fuga da una strage. Così come Mosè fu salvato dalle acque per sottrarsi alle ire del Faraone, anche Gesù fu custodito da Giuseppe dalla furia omicida del re Erode, ma poi ritornò come Mosè inviato da quel Dio il cui nome è “colui che mette in cammino”. Per questo, il Messia inizia la sua vita terrena scendendo in Egitto, nel luogo simbolo del dolore innocente, alla radice di ogni strage, di ogni sterminio perpetrato dal potere quando si sente minacciato e fa di se stesso un Moloch cui tutto sacrificare.

«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» perché ripercorresse l’esodo, sperimentasse l’esilio del suo popolo, e, peregrinante, affidato al Padre, compiendo la sua parola, giungesse, con un nuovo esodo, alla sua Pasqua, compimento di quella antica e anticipazione di quella futura che è la terra promessa da Dio per tutti i suoi figli e figlie. L’approdo dove ‒ come profetizza Isaia ‒ «sarà strappato il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti; sarà eliminata la morte per sempre e – come padre e madre – asciugherà le lacrime sul volto dei suoi figli» (25,7-8).

Dall’Egitto ho chiamato pure i miei figli e le mie figlie, si potrebbe anche dire. Ricordiamone alcuni: Antonio l’egiziano e Maria Egiziaca; ma poi anche Benedetto da Norcia e Beatrice II d’Este. In loro ci è dato percorrere le antiche vie del monachesimo orientale e occidentale, fin nelle nostre terre; l’ininterrotta migrazione degli uomini e delle donne delle beatitudini, il continuo esodo della mistica e della spiritualità cristiane, in compagnia di tanti altri viatores e velatores in itinere, a piedi o su barconi, verso la terra che Dio ha voluto donare loro. Questa peregrinazione della fede come speranza e come amore è un continuo passa parola, anche nella vita nascosta degli eremi e dei monasteri; un salmeggiare e celebrare, come in una universale liturgia cosmica che continua nella vita attraverso la carità fraterna dell’ascolto e della condivisone dei beni. Nell’esperienza monastica si custodisce e si rende al vivo quella coscienza della chiesa che sa di non dover vivere per se stessa, ma per il mondo cui è inviata, ricalcando le orme del suo Signore e Maestro che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la sua vita.

Non diversamente dalla discesa in Egitto di Gesù non va paragonata la vita monastica a una fuga (dal mondo), un volontario esilio lontano dagli intrighi degli uomini e dai conflitti della storia. Non c’ingannino dunque le massime aforistiche del monachesimo egiziano (“fuge, tace, quisce”: fuggi, taci e rappacificati”) e di quello occidentale ora et labora. In realtà tutti gli uomini e le donne dell’esperienza monastica sono situati sulla frontiera, in cui si fa argine all’esondazione del male. Li troviamo intenti a quel passante di valico che è il mistero pasquale di Cristo, “passatori oranti” alla sequela del passeur blessé che è il crocifisso Risorto presso quel varco aperto nella morte, in ascolto del dolore del mondo, solidali nella oscura notte del Figlio, che continua in quella dei suoi fratelli, pronti a riporre, ancora una volta come lui, nelle mani del Padre il destino di tutti noi. Il monachesimo, come un tempo nel deserto egiziano della Tebaide, resta anche oggi per le donne e gli uomini che vi si incamminano una lotta e un martirio vissuti a nome di tutti. Per loro, come dice Paolo, «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti sono uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Essi sono persuasi infatti che «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù» (Rm 8, 38-39). La loro vocazione nella chiesa e nel mondo è quella di condurre all’unità la famiglia umana, con una vita orante ispirata dalla preghiera stessa di Gesù, che chiede al Padre il dono dell’unità (Gv 17,21).

Domani 17 gennaio nel monastero delle sorelle Benedettine si ricorda proprio Antonio Abate titolare del loro monastero; e il giorno dopo, lunedì 18, esse ricorderanno la loro fondatrice la Beata Beatrice II d’Este (Ferrara, 1230 – 18 gennaio 1262). Come si è attuata questa presenza cristiana di Beatrice II per la nostra città? E che cosa dice a noi ancora oggi? Non ho trovato di meglio che rigiocare i tratti della sua spiritualità di mediazione con le indimenticate parole di mons. Antonio Samaritani, che di storia monastica è stato umilissimo e luminosissimo indagatore e scopritore.

«Allora non si davano sante se non canonichesse regolari, di spiritualità agostiniana, o di spiritualità monastica, qui, in zona nostra, benedettina. La beata Beatrice II d’Este è innovatrice e originale: innanzitutto non parte da un normale convento; parte da S. Stefano della Rotta di Focomorto, quindi da un eremitorio; parte da esperienza non monastica, non benedettina, ma mendicante, francescana. Quella della beata Beatrice II d’Este è una tipica spiritualità di mediazione. La vocazione ferrarese forse non è tutta contemplativa, né tutta operativa. La beata Beatrice II d’Este consacra sì la legittimità illegittima, se così vogliamo dire, della sua casata in Ferrara, ma la legittima con connotazioni allettanti per la nuova spiritualità della prima borghesia emergente, supportata appunto dai “fratres minores”, dai domenicani e da tutti gli ordini mendicanti di Ferrara. Si pensa che a Ferrara ci fossero pure delle forme minoritiche avanti la venuta dei francescani, come si possono individuare a Treviso e Vicenza. E’ bello pensare che, in sintonia col messaggio della minorità di S. Francesco, non solo c’è stata una ricezione fra le prime del movimento francescano femminile, le “Sorores Minores”, ma c’è stata direi una precursione, un anticipo tipico della spiritualità padana.  La beata Beatrice d’Este non è la santa contemplativa del Basso Medioevo, la santa medievale dei conventi benedettini; gli Estensi non hanno bisogno di una santa né eccessivamente miracolistica, né eccessivamente contemplativa. Le ossa di Beatrice d’Este sono diventate un centro anche di miracolosità nei secoli, ma molto posteriormente. La spiritualità ferrarese della beata Beatrice d’Este, santa sostanzialmente di ceppo veneto, del basso Veneto, è una spiritualità vicina al popolo: non miracoli, non contemplazioni eccelse, ma testimonianza di povertà e di umiltà. Gli Estensi non erano certamente umili, né certamente poveri, ma hanno avuto bisogno di inserirsi nel cuore dei ferraresi con una carta d’identità di questo tipo» (Radici della spiritualità ferrarese, in Bollettino Ecclesiastico, 2 1993, 349).

Don Primo Mazzolari, in un libro che scrisse per i suoi parrocchiani ricordando l’immagine di S. Antonio, presente in tutte le stalle della sua parrocchia, ne delinea la figura e alla fine si domanda: «cosa fece di straordinario S. Antonio? Niente. Non ha costruito città né fondato imperi, non ha scritto libri né vinto battaglie, non ha scoperto terre né macchine nuove, non microbi di malattie né sieri per guarirle. Eppure il suo posto è tra i benefattori dell’uomo, e, benché la sua lunga giornata si sia svolta in condizioni alquanto diverse dalla nostra, egli ci è di esempio. Vi pare un uomo da poco, uno che non crede nel denaro e non vi corre dietro come fanno i più, vendendo coscienza, pensiero, dignità? Vi pare un uomo da poco, uno che per amore della giustizia e per amore verso i poveri, si spoglia delle proprie ricchezze? Vi pare un uomo da poco, uno che affronta la povertà, la fatica, la solitudine per mantenersi libero onde meglio servire Dio nel prossimo? Vi pare un uomo da poco, uno che potendo fare, secondo l’opinione corrente di tutti i tempi, “il proprio comodo”, sceglie l’ultimo posto e la regola morale del Vangelo?», (S. Antonio Abate. Il contadino del deserto, Vicenza, 1974, 57-58).

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Fotografia di copertina di Giorgia Mazzotti  

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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