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Mani di vasaio

«Come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa d’Israele» (Ger 18,6).
Sceso nella bottega del vasaio, Geremia lo vedeva ricominciare a plasmare la creta ogni volta che si disfaceva tra le sue mani senza prendere la forma voluta.

Un’immagine, questa, che ispirò il commento di Ireneo di Lione [Qui], secondo il quale, se noi siamo sua opera e presentiamo a lui un cuore duttile, custodendo in noi l’acqua sorgiva del battesimo, potremmo prendere la forma che l’impronta dello spirito santo è in grado di infonderci:

«sarà nascosta l’argilla che è in te e la sua mano ti rivestirà d’oro puro e d’argento di dentro e di fuori e ti adornerà così bene che il Re stesso si lascerà prendere dalla tua bellezza» (Contro l’eresia, IV, 39, 2).

Viene in mente l’arte giapponese del riparare con l’oro vasi di ceramica che si sono rotti; i frammenti vengono fissati con una resina cosparsa di polvere d’oro.

Kintsugi [Qui] viene chiamata quest’arte (“kin” che significa “oro” mentre “tsugi” esprime riunire, riparare, ricongiungere), che mette in luce le fratture, le ferite subite dalla creta, esaltandole al contempo come ferite gloriose, preziose, di più grande valore: come quelle del crocifisso risorto che hanno ridato stupore e bellezza agli occhi increduli del discepolo.

Il vaso rotto dall’incredulità di Tommaso prende nuova vita, torna a risplendere la sua fede che confessa alfine: «Mio Signore e mio Dio».

La preghiera del vasaio è il suo stesso lavoro, così è scritto nel libro del Siracide: «Il vasaio che è seduto al suo lavoro e con i suoi piedi gira la ruota, è sempre in ansia per il suo lavoro, si affatica a produrre in gran quantità. Con il braccio imprime una forma all’argilla, mentre con i piedi ne piega la resistenza; dedica il suo cuore a una verniciatura perfetta e sta sveglio per pulire la fornace. Confida nelle proprie mani rendendo solida la costruzione del mondo, e il mestiere che fa è la sua preghiera».

Una preghiera che esce dalle mani nel loro fare. Mano “argumentosa” è quella del vasaio che sa facendo, e prega operando.

Nell’atto stesso di agire, dalle mani scaturisce una preghiera che fa comprendere in una luce nuova gli avvenimenti e rende chiare e luminose le cose, agendo in esse. Il suo è ‘cavar fuori’, come mani di levatrice, la bellezza e la libertà in una esistenza rinnovata.

Mano “argumentosa” è soprattutto quella di Dio, che fin dalle origini non ha smesso di plasmare l’argilla umana, dalla quale prenderà forma pure il corpo del Figlio.

È mano che ammaestra senza parole, quella del Figlio, che fa comprendere la prossimità di Dio attraverso il suo agire, che fa chiarezza ed argomenta operando: facendo prende forma sul suo volto il volto dell’invisibile Vasaio.

La parola ‘mano’ è citata nella Bibbia 1.538 volte, di cui 1.153 con l’espressione yad. Come la lettera ‘yod’, del tetragramma YHWH, essa è legata al conoscere: ‘yada’.

Nella tradizione ebraico-cristiana le mani rappresentano il conoscere e il poter fare, evocano il braccio e l’autorevolezza nella decisione. Quella delle mani è una conoscenza del toccare, del mostrare con le mani, forza di liberazione in vista di un legame di alleanza.

Di più, le mani di Dio sono presenti nel mare delle scritture come gocce d’acqua, acqua che zampilla nella polvere: «una polla d’acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gn 2, 6-7).

Sono le mani del Potente di Giacobbe, del Pastore, Pietra di Israele. (cfr. Gn 49, 24). Mani operose (Sal 92, 5) che plasmano (Sal 95, 5; 119, 73; Sir 33, 13), proteggono (Sap 3, 1; 5, 16; Sir 2, 18), governano (Sir 10, 4-5).

Le mani del Figlio dell’uomo pur esse plasmano dalla povere: «“Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo”. Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe” – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva» (Gv 9, 5-7).

Sono anche mani che guariscono (Mt 6, 5; Mc 8, 25; Lc 4, 40; 13, 13), abbracciano e benedicono (Mc 10, 16). Sono mani da cui nessuno ci può strappare, non perché imprigionino, ma perché custodiscono la libertà di ciascuno contro mani ingorde di mercenari e lupi rapaci.

Sono le mani del Pastore che conoscono e amano, narrate da Giovanni, mani che danno la vita, mani come porte dell’ovile, e se uno entra attraverso di esse, entrerà e uscirà e troverà pascolo (cfr. Gv 10).

Nei gesti di Gesù è la preghiera dei salmi, che si va facendo in lui e per gli altri. Egli prega con mani che intercedono, mani di samaritano, di prossimità, che mosse dalla compassione rialzano e prendono su di sé. Così prega il salmista «Se cade non rovinerà a terra perché il Signore tiene stretta la sua mano» (Sal 37, 24).

Mani che pregano quelle di Gesù di fronte al male irreversibile: «“Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. Gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”. Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi» (Mc 9, 25-27.

E ancora: «davanti a lui vi era un uomo malato di idropisìa. Rivolgendosi ai dottori della Legge e ai farisei, Gesù disse: “È lecito o no guarire di sabato?”. Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò» (Lc 14, 2-4).

Ed infine: «Arrivato poi nella casa del capo e veduti i flautisti e la folla in agitazione, Gesù disse: “Andate via! La fanciulla infatti non è morta, ma dorme”. E lo deridevano. Ma dopo che la folla fu cacciata via, egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò» (Mt 10, 23).

 

Mani d’uomo

«Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi».

Così si legge al n. 22 della costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio, il testo la cui stesura è attribuita a Giovanni Paolo II, presenta il Cristo come l’uomo nuovo nel quale trova luce il mistero stesso della nostra umanità.

Nella sua prima enciclica il papa polacco dirà che proprio l’uomo concreto nel suo essere personale e comunitario deve tornare ad essere la via della chiesa: «è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: l’uomo è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso» (RH 14).

La svolta antropologica impressa dal concilio alla chiesa fu determinata anche da una cristologia che valorizzava nuovamente la storicità e l’umanità del Cristo. Come a voler riequilibrare un orientamento cristologico che, in precedenza, tendeva a mettere in secondo piano la sua umanità privilegiandone la divinità.

Un “cripto monofisismo [Qui]” lo chiamava il teologo Carlo Molari [Qui], latente, serpeggiante ancora nella chiesa, non così deflagrante come nelle controversie del V secolo in cui l’umanità di Gesù, la sua libertà, scomparivano nell’unica natura divina.

“Ha lavorato con mani d’uomo”. Di più, possiamo dire che non solo noi siamo vasi nelle mani del vasaio, ma il vasaio stesso si è fatto argilla, al punto che non si può più dire, qui finisce l’uomo, qui comincia Dio, qui agisce l’uno, là compete all’altro, perché nel Cristo, nella sua persona, l’essere di Dio e l’essere dell’uomo si sono abbracciati e per sempre.

Un mistero di compassione abita la bottega del vasaio, e attraverso le sue mani questa diviene il mistero plasmato anche nella nostra umanità, che prende la forma di una fraternità promessa, ma che va forgiandosi.

Si legge in un commentatore ebraico della Genesi che, quando Dio creò l’uomo dalla terra, lo impastò prendendo la polvere da tutta la terra, dai quattro punti cardinali, di modo che quest’uomo, plasmato da Dio, è un uomo che non appartiene a una parte sola della terra, a un solo popolo di una particolare terra, ma appartiene alla terra intera. Terra: un’unica madre per tanti fratelli.

Suggestivo per la ricchezza di immagini è un inno cristologico di Efrem il Siro [Qui] , poeta e scrittore del IV secolo, un invito a lodare “il Compassionevole”:

Nella sua bontà, il Compassionevole è sceso
fin nell’orecchio di Maria ed entrò in lei.
Per la stessa porta da cui entrò la morte
è entrata la vita, che ha ucciso la morte.
Portato sulle ali dei cherubini,
discese colui che le braccia di Maria hanno sorretto.
Il Dio, che niente può stringere e racchiudere,
Maria in sé strinse e racchiuse.
Il cielo è il trono della sua gloria,
eppure egli siede sulle ginocchia di Maria.
La terra è lo sgabello dei suoi piedi,
ed egli è un bimbo che sgambetta lì con lei.
Con il cavo della mano egli misura
la polvere della terra,
ed eccolo su questa polvere
tentare i primi passi di bimbo.
Adamo esulta alla nascita di Cristo:
per lui ritrova la gloria che aveva perduto.
Chi ha mai veduto il vasaio
coprirsi di argilla come di una veste?
Chi ha mai veduto il fuoco stesso avvolto in fasce?
Questa è la misura impronunziabile
dell’abbassamento di Dio per amore dell’uomo.
Lode a questa Compassione dell’alto
che per gli uomini è scesa in terra.

(Inno di sant’Efrem sulla nascita di Cristo, in La teologia dei Padri, Roma, 1975, v. II, 162-163).

Ogni volta che ritorno al Crocifisso di san Luca, che dopo il restauro di anni fa, da cupo e tenebroso appare ora trasfigurato nel chiarore dell’incarnato e rosso vivo è nelle sue ferite il sangue, mi sovviene del Cristo di Velasquez al Prado di Madrid, anche questi nel suo chiarore mi appare come plasmato da una luce interiore diffusa in tutto il corpo e rubescente scorre il sangue dalle mani, dai piedi e dal costato aperto.

cristo velazquezE, subito, il mio saluto a lui è con le parole di Miguel De Unamuno [Qui], tratte dal poema a quel Cristo dedicato: Verbo incarnato, silenzioso e bianco.

Unamuno ha inteso cantare in versi il Compassionevole trasfigurato, e lo vede “chiaro come l’alba nuova” e “guida come la bianca nube davanti al popolo nel deserto”; lo canta “come la neve su cui scintilla, senza nubi, il sole del suo corpo”. Lo sfiora con la mano, come “candida perla in quella nera nube senza confini, conchiglia all’infinito, che è il Padre suo e Padre nostro”.

E ancora si viene trascinati, commossi, scorrendo in una litania gli altri titoli cristologici: “O bianco Cristo che il tuo sangue tutto per noi donasti”; “Agnello bianco tu sei, ostia bianca”; “bianco lino è il tuo corpo”, “aquila bianca, bianco leone tu sei davvero”; “memori delle parole dette al ladrone, del regno sei la bianca porta”.

Unamuno non si è dimenticato neppure di chiamare Cristo il vaso bianco dalla stessa argilla nostra uscito; pure lui posto sul tornio del Vasaio Eterno: «Anfora candida della linfa divina/ per i secoli dei secoli decantata,/ l’eterno Vasaio ti tornirà col braccio che fece Adamo,/ e il tornio ancor gira. Della stessa argilla,/ vasi nuovi di dolore et d’amore, contro la terra vengon a fendersi!» (M. De Unamuno, Il Cristo di Velasquez, Morcelliana, Brescia, 1948, 25).

 

Le mani legate della libertà

Quelle del Cristo sono pure mani d’uomo legate, mirabilmente e drammaticamente descritte durante la sua prigionia dal pastore Dietrich Bonhoeffer [Qui]:

«Dolore. Mirabile metamorfosi. Le tue forti, attive mani/ sono legate. Solitario, impotente vedi la fine / della tua azione. Ma ecco, respiri e il diritto deponi/ silenzioso, consolato in mani più forti e trovi la pace./ Per un istante, felice, la libertà hai sfiorato,/ poi a Dio l’hai rimessa, che le desse perfetta pienezza» (Resistenza e Resa, Milano 1969 270-271).

Le mani legate del Figlio nell’ora della passività, afferrate e strette da quelle del Padre suo, diventano ai miei occhi l’immagine viva dell’obbedienza di Gesù, le mani della sua fede filiale.

Una comunione a Dio e a noi che agisce, resiste e si dà dunque non solo attraverso le forze che fanno crescere e plasmano la terra e la vita, ma entrano nelle forze di entropia, quelle di diminuzione, che disgregano, mortificano e annullano gli sforzi e i sacrifici dell’avventura umana, in cerca di quella libertà amante di fraternità.

L’obbedienza filiale come libertà senza mani è coniugata così in modo singolare nella figura delle mani trafitte dai chiodi del crocifisso: mani legate, inchiodate al legno.

Cristo appeso alla croce è il sacramento di una libertà nuova, quella che ha la forma dell’obbedienza filiale, che si dona tutta come corrispondenza all’amore del Padre e alla sua volontà buona di riplasmare la fraternità tra gli uomini.

Quella di Gesù è una libertà, una fede senza mani, consegnata insieme al suo spirito alle mani del Padre, una libertà attiva nella passività, amante nell’abbandono.

Questa libertà senza mani perché trafitta dall’amore, questo consenso passivamente attivo di Gesù, sono drammaticamente e insuperabilmente figurati nella crocifissione di Grünewald nel pannello centrale dell’Altare di Isenheim conservato nel Musée d’Unterlinden a Colmar [Qui].

crocifissione grunewaldLe mani del Cristo sono come rivolte verso l’altro, le palme distese e trafitte dai chiodi, quasi sopra il legno, dicono la passività dell’obbedienza filiale, la disponibilità a consegnarsi.

Le dita invece esprimono l’azione di quella libertà impotente che, nell’abbandonarsi alla libertà del Padre, salva. Esse sono in tensione verso l’alto, come se offrissero il mondo intero ed anche come se afferrassero il cielo cupo per farlo scendere sulla terra. Quelle dita sembrano anche ghermire l’oscurità della morte per lacerarla e lasciar passare la luce e la vita. Di più. Quelle dita sembrano voler trafiggere la morte e penetrare in essa come mortale pungiglione.

In corrispondenza alle mani del Cristo sono quelle della Chiesa, simbolicamente figurate nella mani della Maddalena, le quali ne esprimono la sua obbedienza credente.

Pur intrecciate nell’impotenza, incastrate tra loro e imprigionate l’una nell’altra, sono tuttavia libere perché imploranti; pur prigioniere, sono fuori da se stesse per la forza attiva della preghiera e mostrano una immobile mobilità.

Sembrano infatti partecipare alla tensione delle mani del Cristo nell’atto di una libertà che prega il Padre e a lui si affida e, affidandosi, può realmente essere libertà, che agisce in quella divina, insondabile, imperscrutabile e sommamente agente.

 

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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