L’UNICA VOCE
Uno
Mio padre arriva quasi ogni notte, non lo vedo, sento la sua voce. È seduto sulla poltrona azzurra del salottino, è quasi ora di cena. Non la vedo, ma dietro la poltrona c’è una portafinestra che affaccia sul grande giardino, è quasi buio. Non la vedo, ma mia madre ha appena spento i fornelli, adesso si è seduta sul canapè per ascoltare mio padre che legge. Lui ha aperto il giornale davanti a sé, è un giornale grande, come li facevano una volta, non lo vedo, ma sento che sfoglia il giornale, in terza pagina c’è un elzeviro di Buzzati. Ora c’è solo la sua voce meravigliosa, io nel sogno l’ascolto.
Due
Non riesco a ricordare quando è cominciata la mia malattia. Non è una colpa. Forse c’entra il lavoro che faccio. Sono un doppiatore, un bravo doppiatore dicono, molto richiesto, che lavora tanto, per la televisione moltissimo, ma anche per il cinema, perfino per gli audiolibri. Qualche collega, lo capisco dalla loro voce, mi invidia cordialmente. Ma la storia della mia voce (non sono io, è lei la protagonista di questa storia) è cominciata molto prima. Credo in quarta ginnasio, a quindici anni, quando diventi uomo e la tua voce cambia, abbandona il suono bambino e si allarga, si ingrossa, pesca nel profondo della laringe quel timbro che ti accompagnerà tutta la vita.
Tre
Non studiavo abbastanza per un liceo classico, certi giorni non studiavo per niente, ma me la cavavo sempre. Caschi sempre in piedi, mi diceva una cara amica proprietaria di una voce indimenticata. Ed era proprio la voce, la mia voce che mi salvava. Mi chiamano alla lavagna, non so se si dice ancora così che la lavagna non c’è più, e devo imbroccare la risposta. Una risposta giusta o almeno passabile, sufficiente. Ecco il mio sistema, prenderla molto alla larga; ad esempio cominciavo a dire com’è strana la chimica con quella storia delle valenze, che si attaccano o si respingono, oppure del gran mistero, per me era davvero un mistero, della fisica, che mischia talmente i colori, che alla fine diventa tutto bianco.
Quattro
Mio padre ingegnere, mia madre laureata in chimica, di conseguenza Fisica e Chimica, peggio ancora Matematica, erano le mie materie inevase. Non andavo male in Italiano e Storia, ma la scienza per me era davvero durissima, la sbirciavo da lontano, la copertina del libro già mi indisponeva e mi suggeriva la fuga. Ma l’ho detto, c’era la mia voce a salvarmi. Le mie interrogazioni fatte di vaghi discorsi azzittivano tutta la classe. E anche il corpo docente mi ascoltava in silenzio. Tutti fermi, tutti zitti, incantati come nel regno addormentato della favola. Avrei potuto parlare per ore, recitare le previsioni del tempo, e tutto il mondo si sarebbe messo ad ascoltare.
– Vai al tuo posto, Sei e mezzo.
Cinque
A scuola ho capito che la mia non era una voce come le altre. Della voce, di cosa sia fatta una voce, dove nasca la voce e dove possa arrivare, non sapevo niente. Ricordo di aver fatto qualche ricerca in biblioteca. Imparai che ogni persona ha la sua voce, un timbro voluto da Dio o da madre natura, un codice genetico, unico e irripetibile come l’impronta digitale.
Puoi anche provarci, puoi cambiare il volume, variare l’intonazione, imparare un nuovo accento, ma il tuo timbro vocale rimane uguale a se stesso, quando sei giovane e quando sei vecchio rimane con te, la tua voce non ti abbandona. Ti piaccia o meno non puoi scambiarla con un’altra, è tua e solo tua, è la tua ombra fedele, un’ombra sonora, non confondibile, non duplicabile. Nessuno dei viventi ha la tua voce, nessuno dell’infinita schiera che ti ha preceduto in questo mondo, nessuno di quelli che verranno dopo di te.
Ma la mia voce aveva qualcosa di più, proprio come quella di mio padre, creava attorno a sé un cerchio di silenzio.
Sei
La voce però allora non era ancora la mia ragione di vita. Prima e per molti anni c’erano i libri, quando la lettura occupava tutti gli angoli delle mie giornate. Avevo molti libri in casa, duemila o più di duemila. I libri ci sono ancora tutti, a prendere polvere sugli scaffali, perché ora non leggo più, non li vedo più i libri, non ne ho più bisogno, credo sia così.
Ricordo che prima dei vent’anni leggevo e rileggevo sempre uno stesso libro, e una volta, tac, mi sono fermato su una riga, mi è rimasta stampata in testa come una fotografia. Il libro si chiama L’uomo senza qualità e l’ha scritto Robert Musil, un austriaco con la faccia infelice, il mio amatissimo Musil, che guarda caso era un matematico prima di essere uno scrittore.
Quel libro tutti dicono che è un capolavoro e io sono d’accordo, è il libro della sua vita ed è rimasto incompiuto. Ha provato per trent’anni a finirlo, fino alla fine della sua vita, ma niente, non c’è riuscito. Lui che era un matematico doveva aver studiato il problema, aveva impostato l’equazione, ed era andato avanti parecchie centinaia di pagine, ma aveva mancato l’ultimo passaggio. Non era riuscito a risolvere l’equazione. Vuol dire che Musil era un genio, sapeva anche di essere un genio, ma non era così diverso da me e dai comuni mortali.
Sette
L’uomo senza qualità si chiama Ulrich, il protagonista del romanzo che è un non-romanzo come scrive la critica. Ulrich vive in una Vienna mai nominata e come Musil anche lui va incontro al fallimento. Eppure lui, aveva anche studiato ingegneria, è un tipo pieno di qualità, gli manca solo la qualità giusta per vivere il suo tempo. Io avevo meno di vent’anni, ero sul davanzale della vita, leggevo e rileggevo e cercavo la mia qualità, quale era, dov’era la mia qualità? Lasciamo perdere, dilemmi giovanili.
Intanto Ulrich viene assunto da un inutile ente governativo, l’ente si chiamava Azione Parallela e deve preparare la grande celebrazione per l’anniversario dell’imperatore. Ma quello stato, Cacania si chiamava quel vecchio impero che stava esaurendo i suoi giorni, corre verso la dissoluzione e la famosa Azione non si conclude mai.
In una pagina del primo volume l’autore descrive con splendide metafore il rapporto tra Ulrich e il suo più caro amico. Eccola qui: “le loro anime si salutavano dalle finestre degli occhi”. Che è una riga semplice, meravigliosa, anche poetica, tranne per me che non mi sembrava per niente semplice. Non c’era niente di poetico. Voleva dire che la nostra anima e i nostri occhi si toccano, si corrispondono, quindi è negli occhi che si affaccia il nostro io profondo? Che quello che siamo veramente, quella verità che rimane nascosta anche a noi stessi, prende l’ascensore e sale su fino ai nostri occhi?
Otto
Così per colpa di Musil ho cominciato un esercizio quotidiano, prima a scuola, e dopo anche al lavoro, per strada, al bar davanti a un cappuccino, quando incrociavo qualcuno, uomo o donna, vecchio o bambino, uno qualsiasi, uno sconosciuto, subito lo guardavo dritto negli occhi, tanto che a volte mi provocava un qualche imbarazzo – Scusi ma cos’ha da guardare? Ma io non desistevo, non staccavo gli occhi dai suoi occhi.
Una volta una bella signora sui quarant’anni con i capelli rossi e gli occhi blu si è anche arrabbiata. Avete capito, pensava che io volessi, ma io non volevo niente da lei, non è lei che guardavo, e nemmeno i suoi occhi blu. Io non guardavo gli occhi, gli occhi non mi interessavano, ci sono occhi di tutti i colori dell’iride, occhi che la luce del sole gli cambia colore, e se poi non ti piacciono, compri due lenti e puoi cambiarlo il tuo colore naturale. Ci sono occhi truccati in duecento modi e maniere, occhi bellissimi, grandi, allungati come una foglia di magnolia, illuminati, come se dietro i bulbi oculari si celassero due candele accese.
Nove
Tutto bello mi viene da dire. Tanto che di due occhi ci si può innamorare. Basta solo un minuto, così raccontano. È capitato perfino in parecchi libri, che forse il famoso fulmine partirebbe proprio dagli occhi, una freccia che scocca e trafigge gli occhi dell’amata o dell’amato. Tutto bello, solo che io negli occhi cercavo altro, cercavo il fondo del pozzo, l’anima sepolta, la verità nuda.
Invece gli occhi scappano, corrono sempre lontano. E sono velocissimi, attraversano il tempo, viaggiano lo spazio, non si fanno prendere. Ho provato a inseguire gli sguardi, ma c’era da impazzire. Ricordo uno sguardo, ma è solo un esempio che vi voglio fare, uno sguardo che se ne stava lì, tutto assorbito nella contemplazione del piatto di spaghetti che il cameriere gli aveva appena servito, passa un secondo e al posto del piatto lo sguardo è già scappato lontano, sul mare azzurro della prossima estate, poi tra i compagni della quinta elementare, gli ultimi istanti della nonna morente, il sorriso della prima fidanzata, la faccia da stronzo del capoufficio. Ho viaggiato il mondo con gli occhi degli altri. Senza trovare quel che cercavo. Senza sapere cosa cercare.
Dieci
Ci ho messo quasi quarant’anni, una mezza vita, per capire cosa volevo trovare. Prima cercavo senza capire cosa. Cercavo quello che mi mancava. C’era un buco che dovevo riempire. Mi sembrava di vivere così, di camminare sopra un tappeto, ma cosa c’era sotto, dall’altra parte del tappeto? Eppure da bambino avevo avuto una premonizione, mi si era accesa una luce, ero stato vicinissimo a capire, ma poi niente, mi ero distratto, avevo perso il filo di quella precoce illuminazione.
Undici
Ecco, sono sempre io, sette anni appena compiuti, mingherlino piantagrane capriccioso, pestifero, così mi presentava mia madre al pubblico delle amiche. Non c’era scuola, quel giorno ero in mezzo al grande gruppo, i fratelli e i cugini, quindici in totale. Numeri d’altri tempi. E a comandare tutta la banda c’è naturalmente la nonna, l’unica nonna che ho conosciuto, autoritaria a dir poco, temuta e terribile, ma stracarica di libri e di storie. Per questo l’ho sempre rincorsa, l’unico della grande famiglia a scambiare la sua scienza per l’amore di cui non credo fosse capace.
Come tutti gli anni, era il giorno di Santo Stefano. Tutte le famiglie sono riunite nella grande casa della capostipite. Finito il pranzo della festa, la nonna fa un cenno e tutta la stirpe si incammina e raggiunge il grande salone. C’è un grande cesto con i regali per i nipoti, ma i regali verranno dopo. In fondo al salone, c’è una larga credenza ottocento colorata di bianco. Sul piano della credenzona, sopra un semplice panno verde, un presepe con poche figure di terracotta. Era il presepe della nonna. Molto elegante, essenziale, ma se avessi avuto voce in capitolo avrei aggiunto un bel po’ di pecore, il muschio, la stella e le luci intermittenti. Il presepe faceva solo da sfondo: lo spettacolo si svolgeva davanti. C’erano sedie per tutti e una poltroncina per la nonna, al centro della scena. I bambini e i ragazzi più grandi presentano ognuno un piccolo intervento, una poesiola, una canzone di natale, meglio, molto meglio se in francese. Un altro pallino della nonna.
Dodici
Ma prima dello spettacolo a più voci, c’era la voce della nonna. In un silenzio di chiesa la nonna terribile raccontava un pezzo della antica storia familiare. Parlava di città mai viste, di persone che nessuno di noi aveva conosciuto, vite e nomi tramontati, morti che tornavano in vita in quel tempo sospeso, arrivavano anche loro nel salone, si univano alla grande famiglia.
Quel miracolo avveniva solo attraverso la voce della nonna. Era lei la medium, era la sua voce che richiamava all’essere il non essere. Poi la sua voce finiva nel silenzio e io sapevo di aver assistito a un prodigio, per un attimo avevo visto e capito le cose che stavano in fondo all’abisso. Ma ero troppo piccolo, dopo una giornata di gioco avevo dimenticato tutto.
Tredici
Mentre lavoravo allo studio di registrazione incontravo le voci degli attori che dovevo doppiare. Doppiare, replicare, clonare, non sono verbi adatti al mio lavoro. Ogni voce è unica, puoi essere bravissimo, ma una voce puoi solo interpretarla, non doppiarla. Ma per interpretare devi prima capire. Io sono partito da lì, con gli anni diventavo sempre più bravo, le voci cercavo di capirle sempre di più, così immaginavo la bocca dell’attore, il suo modo di ridere e il suo pianto. Dopo un po’ vedevo, cioè sentivo, molto di più: la voce mi apriva, una ad una, tutte le porte.
Il mio modello era Ferruccio Amendola, uno dei grandi doppiatori della scuola italiana. Amendola aveva prestato la sua voce a Robert De Niro, a Dustin Hoffman ma anche ad Al Pacino. Guardavi Taxi Driver e la voce di De Niro era quella di Amendola. E se guardavi Il Maratoneta, a parlare era la voce di Amendola. E con Serpico era uguale, la voce di Al Pacino era sempre la stessa, quella di Ferruccio Amendola. Ma la voce non può dividersi in tre e quando una volta è successo che i tre divi americani hanno fatto un film tutti e tre assieme, Amendola ha dovuto sceglierne uno, uno solo.
Quattordici
Sul doppiaggio ci fu un interessante esperimento. Dove aveva fallito Amendola e la voce umana, fu messa alla prova l’Intelligenza Artificiale. Non si trattava di clonare la voce, di produrre da una voce tre voci uguali alla prima, ma di creare da un unica voce, tre voci sorelle, simili ma diverse, originali, nuove e pronte all’uso. L’avevano chiamato progetto Trinità: partire dal Padre e dal Padre creare il Figlio e lo Spirito Santo. Il risultato fu che da una ciliegia la I.A. partorì altre due ciliegie. Sembravano assolutamente identiche ma le ciliegie clonate non avevano il nocciolo. E così le noci, perfette ma senza gheriglio, così i confetti senza mandorla, così le voci, vuote, senza anima. Lasciarono perdere,
Quindici
Credetemi, guardare il fondo di una voce è un lavoro faticoso, sfiancante – tornavo a casa la sera e mi buttavo a letto – ma è la cosa più meravigliosa che mi sia mai capitata nella vita. Sentire tutto era un viaggio entusiasmante, molto più di un giro intorno al mondo. E dentro la voce c’erano tutti i segreti, anche i più inconfessabili. Chi poteva conoscerli? Io e nessun altro. Se non ero Dio ci ero molto vicino. Mi chiedete della voce di Dio? Confesso, avrei voluto essere sul Sinai accanto a Mosè, e non per le tavole della legge, solo per scambiare qualche parola con quella voce, potente come un tuono e tenera come una brezza leggera. No, la voce di Dio non l’ho mai incontrata.
Sedici
Ormai l’indagine sulle voci era diventata la mia prima occupazione, la mia unica passione. Entravo in una voce e scavavo, scavavo fino alla fine, cioè fino al principio, il principio che orienta ogni singola vita, il soffio vitale, la verità nuda cruda. L’unica voce, lei non poteva mentirmi, tutto il resto non mi interessava più, era solo apparenza, pubblicità.
Diciassette
Ho ucciso definitivamente il televisore, già lo vedevo pochissimo, ma ora basta. E basta anche con il pc, con la posta elettronica, con lo smartphone: venduti, regalati. I libri li ho ancora tutti, ma ho smesso di leggerli, nemmeno un rigo.
Una mattina mi sveglio e sono sicuro di aver sognato. Ancora quel sogno, mio padre legge il Corriere e mia madre lo ascolta. Il sogno è lo stesso eppure è cambiato. Sento distintamente la voce di mio padre, ma tutto il resto, tutto quello che dovrebbe esserci attorno a quella voce è sparito: sparita la poltrona, la porta finestra, sparita mia madre con la testa un po’ inclinata, sparito il giornale (credo di aver udito il fruscio di una pagina). Sparito anche lui, il protagonista del sogno, anche mio padre se n’è andato, lasciando solo la sua voce.
Ora di notte non c’è più nessuna luce ad intralciare la purezza dei suoni, qualcuno deve aver spento anche il lampione della strada. Di notte entro in un buio senza spavento, i sogni arrivano puntuali. Sogno le voci, finalmente nitide, pulite, le riconosco una ad una, le saluto con un sorriso o una lacrima. No, ripeto, nessun spavento. La voce basta e avanza. Ditemi allora: a che servono le immagini?
Diciotto
Ero pronto per la fase successiva. Di notte era più semplice, di giorno invece le voci non sono limpide, si mischiano con i rumori della strada, la strada è ingombra di cose e persone. Provo a chiudere gli occhi, ma appena li riapro le immagini mi assalgono, si accavallano, urlano senza sosta. Ma la voce insisteva: Ascoltami, sono qui, sono io, non mi riconosci? Per fortuna la malattia progrediva. Velocemente, senza il mio aiuto.
Un mattino era lunedì, esco per andare al lavoro, e sento una voce, distinta, pulita che si staccava da tutto il mondo. Come ogni mattina, era la voce del mio vicino di casa Giovanni Canuti, impiegato di banca, che mi salutava. Ma questa volta il mio vicino non c’era più. E non c‘era nient’altro da vedere, nessuna interferenza, l’orizzonte era sgombro, come il cielo dopo un temporale. Finalmente ero cieco.
Diciannove
La settimana scorsa su consiglio del mio medico di base sono stato ricoverato in Diagnosi e Cura. Se ho capito bene quello che ho letto sul foglio del referto dello psichiatra, dopo una visita accurata, io non sono matto, non propriamente almeno, tra l’altro la parola matto non si usa più, per nessuno. Io poi so benissimo di non essere matto, e non per partito preso, per orgoglio o per paura, ma per una precisa deduzione personale, un ragionamento fra me e me che, non lo dico per vantarmi, fila come l’olio. Se fossi matto me ne sarei accorto immediatamente, e l’avrei presa come una tragedia.
Ho quasi 50anni e di tragedie ne ho viste, la so riconoscere una tragedia, una guerra, la morte di una persona cara, il tradimento di un amico. Una tragedia ti mette sulle spalle un carico da novanta, è un dolore che ti schiaccia a terra, ti entra dentro, ti brucia, si incista tra i polmoni e lo stomaco. Non riesci a respirare, non mangi nulla, non vivi più, non ti interessa più niente, né il mondo né te stesso. Invece la mia malattia, se è davvero una malattia, mi lascia in pace. Respiro, mangio come prima, aspetto la domenica. Posso dirlo? Non sono mai stato meglio.
Venti
La mia malattia non ha ancora un nome. Qui si stanno dando un gran daffare per individuare una diagnosi, ma per ora niente, è passato quasi un mese e sono ancora al punto di partenza, ai sintomi, ma con i sintomi non si fa tanta strada. Sono però un caso interessante, da studiare, magari da scriverci un articolo per una rivista scientifica.
Quel che è certo è che qui dentro tengono molto a me. L’equipe medica, al completo, mi fa visita tutte le mattine. Il primario, un pezzo grosso, uno psichiatra di chiara fama, mi ha preso direttamente in carico, testuali parole: “direttamente in carico”. Per cui stia tranquillo che ne veniamo a capo, mi ripete.
Tutti i pomeriggi il primario mi dedica 50 minuti del suo tempo, dalle 16 alle 16,50. È gentile e io ho immediatamente notato la sua bella voce, una voce a cui darei un bel voto, un 7 pieno, se non fosse inquinata da una fastidiosa venatura zuccherosa. Non so, forse gli psicoterapeuti pensano che il miele aiuti il transfert.
Ventuno
Il primario mi fa un milione di domande, così ripeto da capo tutta la mia storia. Come tutti gli psichiatri ha una vera passione per i miei sogni. Non c’è problema, ho mille sogni in archivio. Cominci pure dall’infanzia, il primo ricordo, il rapporto con sua madre, e come e quando è cominciato il suo disturbo.
Non dice la parola disturbo, dice “il suo grande interesse per le voci”. Dice interesse ma credo voglia dire mania. Ma se si chiama mania io mica mi offendo. La mia cecità sarebbe solo un fenomeno isterico. Ci credo, tutte le analisi lo confermano, i miei occhi stanno benissimo, la mia vista è perfetta, dieci decimi.
Al primario ho cercato di spiegare il mio punto di vista, perdonatemi il termine incongruo, gli ho detto che il mio cervello non c’entra proprio niente, che il mio cervello funziona a meraviglia, molto meglio di prima. Solo che ora, ora che sono cieco, posso sentire le voci del mondo. Limpidamente, senza nessuna interferenza. Solo ora riconosco le voci una ad una. Solo ora posso capire tutto di tutti. Solo io riesco a tuffarmi laggiù, dentro ogni unica voce.
Ventidue
Mentre i medici elaboravano una teoria su di me, il sottoscritto non stava certo con le mani in mano. Anche io elaboravo una teoria, rivoluzionaria vorrei dire, la prova provata che il mio cervello lavorava al buio mille volte meglio che alla luce. Qui in ospedale la mia attività onirica si è intensificata. L’altra notte ho fatto un sogno inedito, una musica di pianoforte accompagnava la voce, quel sogno mi ha regalato una scoperta.
Come un certo accordo richiama e ricerca un accordo gemello, con la medesima esattezza ad ogni voce corrisponde un’altra unica voce. Solo quella voce, una voce diversa dalla prima, ma che le risponde come un’eco, che la completa in modo unico e perfetto. Così, per ogni unica voce doveva esistere nel mondo, vicina o remota, viva o solo nella memoria, un’altra unica voce. Come un’onda che corre da sola nel grande mare fino a fondersi con un’onda gemella.
Forse la famosa anima gemella è solo una favola della gioventù, ma esistono voci gemelle. Due voci uniche, diverse ma legate da una invisibile armonia. L’altra notte ho sentito la mia voce gemella. Ero sicuro di averla già incontrata quella voce, da sveglio, tanti anni prima. Allora non me ne ero accorto, ma non era morta.
Ventitre
– È libero? Posso sedermi?
– Certo. È libero. E mi rimetto a leggere. Mezza pagina e finisco il capitolo.
– Sei di terza? La famosa terza A?
– Terza A? No, per fortuna no. Perché poi ce l’avevo con quelli di terza A? Boh, è passato un secolo.
Stacco gli occhi dal libro e rispondo, secco – Sono in Terza E.
Posso permettermelo, sono un liceale all’ultimo miglio, ma decisamente è un po’ poco come risposta, recupero, riesco anche a essere gentile: – E tu? Sei in quarta Ginnasio? Ma con un tono gentile, senza irrisione.
– Noo, in prima Liceo, Prima C, siamo tutte donne. Ecco perché non ti ho mai visto. Noi della C siamo in sede e voi della E in succursale.
In vicolo del Gregorio, già, confinati nella succursale, bella roba.
Mi guarda dritto negli occhi e fa una risata leggera. E si presenta: – Per la precisione mi chiamo Laura.
Per la precisione? Che c’entra la precisione? Potevo chiederglielo ma non l’ho fatto. La montagna incantata mi chiamava, così riapro il libro, Einaudi mi pare, e vado avanti a leggere. Fino a Urbino.
Ventiquattro
Di Urbino non ricordo niente. Ecco, ricordo i corrimano di ferro nelle stradine curve in salita. Servono per la neve e il ghiaccio. O magari per rimanere in pedi quando il vento tira forte, ho pensato quel giorno. Che è una stupidaggine, ma avevo in testa la poesia di Pascoli, quel verso, “abbiamo in fronte Urbino ventosa”. Quel giorno a Urbino non ricordo nessun vento, ma pensavo agli aquiloni, al ragazzo morto prima di ogni sconfitta, all’incanto della montagna di Thomas Mann. Pensavo ai libri cominciati che mi aspettavano pazienti sul mio letto. Due mesi dopo mi aspettava anche la Maturità e il mio unico impegno era di non pensarci proprio.
Quanto a Laura, quella Laura, mai più vista, persa, volata via, eppure la sua voce oggi è ritornata, si è unita alla mia voce.
Cover: Doppiaggio, immagine da Albenga corsara per Voci nell’Ombra, 2019
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Francesco Monini
Commenti (6)
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Ci ricordi che la voce, anche quella che “sentiamo” nella irrealtà dei sogni, è la materia del linguaggio! Grazie per questo bel racconto.
Davvero un bel racconto, l’ho letto tutto d’un fiato, trovandoci una vaga aura tabcchiana ( ed è un elogio). Quanto all’importanza degli occhi e al loro incontro ne ha scritto un grande critico Jean Rousset, Leurs yeux se rencontrèrent. La scène de la première vue dans le roman, pubblicato da Corti ed esiste un delizioso libretto, Gallimard folio 2 euro che, riprendendo la prima parte del titolo di Rousset, fa un’antologia delle “Plus belles premières rencontres”) nella letteratura di tutti i paesi. Quanto alla voce, così importante e cara al nostro Francesco, ma anche al grande Tabucchi ricordo un suo saggio “Un universo in una sillaba” raccolto in “Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori” (Feltrinelli).
Un racconto intenso e sorprendente: la voce occupa lo spazio dell’assoluto. Che sia Laura il nome della voce che riemerge dalla giovinezza fa sperare di chiudere bene il cerchio (anche letterario) della vita
Ho seguito il filo della tua voce e mi sono ritrovato nel silenzio della sera. Grazie per queste intense emozioni
Meraviglia
Intense emozioni scorrono nella tua voce, nelle tue parole….
Ho pensato di poter ascoltare il tuo racconto alla radio….
Le Voci di dentro sono quelle dell’essenza….
Sono commossa.
Grazie Checco