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I’m Not in Love (10cc, 1975)

Un cofanetto di latta trovato nell’armadio, una vecchia scatola di biscotti. Guardo dentro e ritorno di colpo al passato.
È pieno zeppo di foto, molte in bianco e nero, alcune a colori…

Anno 1975: un’altra vita, un altro mondo, un altro me stesso. Il mangiadischi di mia sorella suonava ‘rock the boat’, ‘rock your baby’, ‘Love theme’ e tutta la musica luccicante d’allora che portava l’estate ogni giorno dell’anno.
Io e mio cugino, bambini sul lago, persi tra sogni e ricordi, quando voglia d’avventura e meraviglia coloravano le nostre giornate.

Magliette a righe come quelle dei marinai, pantaloncini bianchi e corti alle ginocchia, sandali di gomma per camminare sui sassi immersi nel lago. Due monelli a zonzo per le vie di Garda. Io sono il piccoletto, poi quello spilungone di mio cugino, magro come un’acciuga e più grande di me di quasi tre anni.
Le giornate sono lunghe ma mai noiose perché una storia da inventare la si trova sempre. Ce ne andiamo in giro a cercare qualcosa da fare, concentrati e determinati come due piccoli agenti in missione segreta. Ogni luogo è una terra sconosciuta da esplorare, ogni oggetto trovato è un mistero da risolvere, ogni ostacolo una sfida da vincere. E alla fine di corsa al quartier generale, la grande casa presa in affitto per le vacanze, sicura e confortevole coi nostri genitori sempre ad aspettarci e a far domande.

L’eterna estate degli anni settanta quando luglio e agosto valevano un anno intero. La scuola finiva e iniziava l’avventura. Posti lontani a due passi da casa. I giri con le bici, interminabili viaggi senza tempo… Com’era bella la vita senza i telefoni in tasca!

Dalla spiaggia della Cavalla fino a Punta San Vigilio. Eccolo: è questo il nostro mondo tutto per noi e pronto da conquistare!
Quella volta partiamo a caccia di cagnette armati di secchiello, retino, lenze e mollica di pane. Ci caliamo nei cunicoli semisommersi tra gli scogli e aspettiamo pazienti le nostre prede. Mostri voraci dalle bocche irte di denti, vivono nascosti nel buio di fessure di roccia sommersa: le nostre murene in miniatura.
Per niente buone da mangiare, con una pelle grigia e priva di squame, fredda e sgusciante come quella delle anguille. Sono piccole ma forti e muscolose, munite di dentini aguzzi e dolorosi come aghi…
Per un po’ le cagnette sono il nostro principale passatempo. Una volta catturate finiscono nel secchiello giallo pieno d’acqua e restano lì per tutto il tempo della “missione”, ovvero finché non decidiamo di ributtarle nel lago. Così quella mattina ne pesco una così grossa che ho paura a prenderla in mano. Tiene la bocca spalancata quasi a voler dire “se ti avvicini ti mordo”. Mi ricorda la bocca dei piranha che ho visto tante volte nell’acquario del negozio di animali di via Armari a Ferrara. Quante volte mi son fermato a fissare quella vetrina… ricordo che i piranha erano due e se ne stavano precauzionalmente da soli, mentre al sicuro nell’acquario di fianco c’erano pesci combattenti blu e pesci spazzino sempre indaffarati a dragare la ghiaia ammucchiata sul fondale.
Ma torniamo al lago. Alla fine catturiamo circa una trentina di cagnette. Alquanto soddisfatti decidiamo di raggiungere lo stagno che si trova nel bel mezzo dei giardini pubblici, a poca distanza da noi. Arrivati ai margini dell’acqua liberiamo le cagnette una ad una, come in un rito solenne. Le guardiamo scomparire con guizzi fulminei nelle acque grigie e immobili dello stagno. Siamo fermamente convinti della bontà dell’operazione: una colonizzazione in piena regola, con l’idea che in breve tempo lo stagno si sarebbe popolato di cagnette. E tutto questo grazie a noi.
La delusione è cocente quando l’indomani il signor Romeo, il nostro padrone di casa, ci spiega che le cagnette non sono pesci in grado di sopravvivere in uno stagno. Che al contrario hanno bisogno di acque ricche d’ossigeno come quelle del lago. Senza saperlo le avevamo condannate a morte.
La sera stessa, tormentati dal senso di colpa, torniamo allo stagno nuovamente muniti di lenza, retino e secchiello con la speranza di salvarne almeno qualcuna. Vorremmo catturarle di nuovo per riportarle al lago ma sappiamo che l’impresa è disperata: le acque dello stagno sono torbide, la superficie è ricoperta di piante acquatiche, è impossibile vedere il fondale.
Siamo ormai sul bordo dello stagno. La luce del tramonto dipinge di sfumature arancioni l’ambiente tutt’attorno, le ombre s’allungano rapidamente sui cespugli, sui prati fioriti. Ma è proprio tra l’erba che intravedo qualcosa muoversi. M’avvicino per vedere meglio e chiamo subito Gianfranco. Restiamo a bocca aperta, increduli.
Sotto di noi una processione di cagnette che si trascinano sull’erba non senza difficoltà. Usano le minuscole pinne come delle zampette primitive. In pratica camminano.
Non sappiamo affatto come facciano a respirare fuori dall’acqua ma ci riescono.
Ci guardiamo attorno e alla fine capiamo cosa sta succedendo: a una ventina di metri da noi, proprio nella direzione presa dai pesciolini, passa il torrente che taglia in due il paese segnando il confine orientale dei giardini pubblici. Le sue acque scorrono limpide e veloci finendo nel lago a poca distanza.

Ecco qua: le cagnette non avevano certo bisogno del nostro aiuto, per loro avevamo già fatto anche troppo.
Siamo rimasti ad osservarle nel loro lento e inesorabile cammino verso la salvezza. Ritornavano a casa spinte da un istinto di sopravvivenza a noi sconosciuto, guidate da una bussola misteriosa nascosta nel loro dna.
È già buio pesto quando l’ultima cagnetta, la più grossa, quella che il giorno prima mi aveva ricordato i piranha dell’acquario, raggiunge a fatica il bordo del torrente. Senza pensarci un attimo la prendo in mano per lanciarla in acqua, lo faccio per aiutarla anche se non ne ha bisogno. Prima di cadere nel torrente lei mi ringrazia mordendomi il pollice.
Mai morso fu più doloroso e meritato di quello!

Love’s Theme (The Love Unlimited Orchestra, 1973)

Rock Your Baby (George McCrae, 1974)

Rock the Boat (Hues Corporation, 1973)

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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