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di Andrea Pavanello

Mentre il mondo è ancora sconvolto a causa di un uomo dai capelli tinti, io gradirei soffermarmi sulla bellezza e su una ricorrenza particolare.
Perché oggi, 14 Novembre, uno dei miei artisti preferiti, uno degli ultimi giganti della musica pop – ma pop davvero – ne fa 83.
E allora auguri al Signor Alfio Finetti – aggiungo anche un bel “diomà” – e proclamo non solo questa giornata, ma tutta questa settimana “Settimana Mondiale di Alfio Finetti”.
Mi pare doveroso e aggiungo ancora un “diomà” come rafforzativo.
E anche se purtroppo il nostro eroe non è più sulla scena da un po’, beh, la forza della sua musica – e anche delle sue barzellette – resta qua più carica che mai.
Perché il signor Finetti è sempre stato un uomo del popolo.
Di più, un uomo del popolo più acuto della media.
Cioè, ce lo immaginiamo un suo parere boh, su Donald Trump?
Io sì, diomà.
E ne sono sicurissimo: la sua voce troneggerebbe come sempre sopra le altre, romberebbe potentissima spazzolando via tutti questi Mentana brisa per confinarli proprio dove meritano.
Dove?
Beh, ovvio: là, oltreoceano, nel freddissimo stato del Mentana.
Ma chi è Alfio Finetti?
Premessa: io sono un ferrarese adottivo quindi chiedo già scusa ai ferraresi hardcore per eventuali interpretazioni troppo personali e/o fuorvianti e/o inesattezze varie.
Quindi, provando a garantire una partenza equa verso il mondo del signor Finetti ai ferreresi e non, partirò con un (più o meno) imparziale copia/incolla da Wikipedia:
Alfio Finetti (Ambrogio di Copparo, 14 novembre 1933) è un cantautore italiano, autore di canzoni in dialetto ferrarese[1]. Attivo da circa 50 anni, la produzione di Alfio Finetti è costituita interamente di canzoni dialettali, talvolta con l’aggiunta di parti di testo in inglese. Lo stile musicale è essenzialmente blues con forti influenze del “liscio” tipico delle province emliano-romagnole. Ha all’attivo oltre 130 canzoni. È diventato noto all’inizio degli anni ’70, quando le sue canzoni furono incise dalla casa discografica Ricordi. Ha scritto circa duecento canzoni, pubblicate in venti album.[2] Un suo brano è stato adottato come inno ufficiale della SPAL, la principale squadra di calcio di Ferrara. Sono stati prodotti due video di sue canzoni. Ha composto un musical in lingua italiana dal titolo “Passeggiando nel 2500 e rotti”, con scene realizzate da Carlo Rambaldi. È autore anche di alcuni libri, tra cui raccolte di poesie. Il successo di Finetti, nonostante l’impronta fortemente locale che deriva dalla scelta linguistica, è dovuto in gran parte alla verve comica espressa dai testi.
Bene, smaltiti i convenevoli adesso posso raccontare la mia umile e stupida esperienza.
La prima volta che ho sentito nominare Alfio Finetti è stata dieci anni fa tondi tondi in un’occasione davvero improbabile: stavo andando a vedere gli Stooges.
Con me, un gruppo di amici miei, tutti parecchio saganati con Iggy Pop e in particolar modo con il primo Iggy, quello 21/22enne dei primi due album degli Stooges.
Era anche il mio primo concerto e, mentre ci sentivamo al telefono con il capo della spedizione, lui mi dice: siamo io, te blah blah blah e ah, viene anche Alfio.
Non sapevo chi fosse Alfio ma essendo questo Alfio un fan degli Stooges, così convinto da farsi tutte quelle ore di treno, avevo capito che era senz’altro un bravo tipo.
Così, la sera prima, ceniamo tutti insieme e per la prima volta conosco questo Alfio, il quale si presenta giustamente come Alfio sebbene non si chiamasse davvero Alfio.
Anche se ero un teppistello che diceva cose come “Fun House degli Stooges è la vetta della creatività umana e chi non è d’accordo merita di rotolare giù dalla vetta”, all’epoca ero anche un timidone e non mi sembrava giusto chiedere ad Alfio perché si chiamasse Alfio anche se avevo già intuito che Alfio non era il suo nome.
Così, la mattina dopo, svegli dall’alba, ci siamo lanciati in questo vero e proprio pellegrinaggio fatto di treni, digiuni, bottiglie d’acqua e l’indescrivibile epifania dell’apparizione di quel tappo di Iggy in persona, affiancato dai redivivi fratelli Asheton, con un sacco di volume a personificare il Verbo del Grande Vangelo dei Grandissimi Stooges.
Fu durante il viaggio di ritorno, che, frastornato e beato, finalmente glielo chiesi: ma perché ti chiamano Alfio?
Risposta: Alfio!! Per Alfio Finetti!
E a quel punto non avevo mica ancora capito, forse perché ero a Ferrara da neanche un anno.
Solo l’intervento del capo spedizione riuscì a fare chiarezza spiegandomi che lui, il capo spedizione, era “Cesare” perché di cognome faceva Ragazzi e Alfio era “Alfio” perché faceva Finetti di cognome.
Ne parlavano in un modo davvero molto occulto, un po’ come si fa adesso con quelle vaccate dell’Italian Occult Psychedelia.
E per almeno tre anni, per me, Alfio Finetti fu davvero un occultissimo enigma.
Poi un altro mio amico mi aprì le porte dell’Italian Occult Psychedelia (Loggia della Grande Ricciola d’Italia, rito Sfoglia) facendomi ascoltare “Salama da sugh”.
Io sono uno che è cresciuto ascoltando solo r’n’r in inglese, facevo fatica persino con i CCCP e di italiano -in italiano- mi piacevano solo gli Impact, ma questo Finetti, già al primo ascolto, aveva davvero parlato al mio cuore di ferrarese acquisito – ma soprattutto – inossidabile militante buontempone.
Da quel momento ho cercato di indagare il più possibile questa figura, troppo moderna per finire in un’antologia di Lomax e al tempo stesso troppo “arcaica” per parlare a un certo pubblico attuale.
In molti potrebbero ridere per questo mio scomodare Lomax. ma non mi sembra proprio un’idea bislacca.
Perché andando avanti con le mie indagini ho scoperto cose che non potevo proprio immaginare, cose davvero occulte.
Ho scoperto delle canzoni grandiose che mi hanno insegnato un sacco di roba.
E non parlo mica dei rudimenti del dialetto ferrarese.
Parlo di intuizioni che sono davvero avanti anni luce, (l’inizio di “A Go Al Grezz” sembra registrato ieri) parlo di suoni asciuttissimi e di una sezione ritmica intelligente come la mano sinistra di Ray Manzarek e tutti gli arti di John Densmore.
A un certo punto ero preso così bene che ho cercato il batterista che suona in “Al Condominio” sull’elenco telefonico per chiedergli se gli andava di fare delle tracce di batteria per il mio disco.
E l’avevo anche trovato! Ma poi mi sono detto che forse non era il caso di fare come quel campagnolo di Cobain che scrive una letterina al tipo degli Os Mutantes chiedendogli se si gli va di rimettere su la baracca per le date brasiliane dei Nirvana.
E quindi ho capito, ho capito un sacco di cose.
Ho capito che Finetti è davvero un grande ponte, un ponte fra quella tradizione popolare italiana che è finita nelle bobine di Lomax e tutta la musica “popolare” che sarebbe arrivata dopo, purtroppo in ritardo per saltare sul treno del signor Lomax.
Insomma, Finetti è un bluesman come lo può essere quell’R.L. Burnside che però per motivi geografici Lomax l’ha incrociato.
E quando un bluesman incrocia Lomax si sa, il successo è più garantito di quando incrocia il proverbiale diavolo dell’incrocio.
E allora oggi io sono qui per tentare di rendere umilmente giustizia ad Alfio Finetti proclamando a pieni polmoni che Alfio Finetti è il più grande bluesman emiliano e non solo.
Quest’uomo è realmente una specie di folk singer/bluesman elettrico, uno che il blues se l’è mangiato e l’ha risputato fuori davvero a modo suo, uno che non si è limitato a copiare ma che ha steso davvero un grande ponte dal Po al Mississippi, diomà.
Poi: si sarà davvero ispirato al blues?
Boh, io non lo so perché purtroppo non l’ho mai conosciuto e non l’ho neanche mai visto dal vivo a parte qualche spezzone su YouTube.
Ma parecchi miei amici l’hanno visto anche più di una volta e dai loro racconti è paurosamente simile ai racconti di chi ha visto Muddy Waters.
Poi: chi se ne frega se Alfio Finetti si è ispirato al blues o no.
Leadbelly si metteva per caso là, sulla sua bella sedia con la sua bella chitarra dopo aver cogitato delle ore per poi concludere con un bel “oh, là, adesso devo proprio fare del blues”?
Non penso proprio.
Leadbelly – parole sue – suonava la roba che aveva imparato in campagna mischiandola alla roba che sentiva alla radio.
E durante i concerti raccontava pure storielle e barzellette, proprio come il signor Finetti, diomà.
A parlare sono i fatti e i fatti lo dicono chiaro e tondo: Alfio Finetti è il nostro Leadbelly.
E io oggi sono qua con uno scopo, predicare la grandezza di Alfio Finetti nel mondo perché questo è il momento giusto.

Un uomo molto più saggio di me una volta ha scritto che “il metallaro è un tipo con i piedi saldamente ficcati nel fango e la testa altrettanto saldamente puntata verso le stelle”.
E il blues non è per caso il grande nonno del metallo?
Certamente.
E quella definizione non è perfetta anche per un Leadbelly e un Alfio Finetti?
Io direi di sì ma poi fatevi voi la vostra idea.
Quindi di nuovo auguri e via con uno dei miei pezzi preferiti.

Selezione e commento di Andrea Pavanello, ex DoAs TheBirds, musicista, dj, pasticcione, capo della Seitan! Records e autore di “Carta Bianca” in onda su Radio Strike a orari reperibili in giorni reperibili SOLO consultando il calendario patafisico. xoxo <3

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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