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Non possono esistere mezze misure per parlare, scrivere, dipingere l’inverno, perché questa stagione è radicale, senza compromessi, così profondamente delineata e riconoscibile nei suoi tratti che si fatica ad attribuirle risvolti diversi da ciò che ci offre. L’inverno gioca la sua partita in una dualità che alterna il calore della casa al gelo circostante, le luci delle ore centrali delle giornate più corte alle lunghe ombre che dominano gran parte della nostra quotidianità, le albe siderali ai tramonti di fuoco, la vita vivace sulle nevi al bisogno di introspezione.
I mesi invernali trovano le loro forme più movimentate e festose nei dipinti fiamminghi e olandesi di Hendrich Avercamp, Jan Griffer, Isaack van Ostade, popolati di pattinatori sui canali, bambini su rudimentali slitte, barche a vela trascinate sulla superficie cristallina cariche di legna, carbone e altra mercanzia, carri incagliati nel ghiaccio e ruote di mulini coperte di ghiaccioli, ricchi signori impellicciati che passeggiano sulla lastra sdrucciolevole e improvvisati giocatori di curling che colpiscono i sassi con bastoni. E ancora, quei cacciatori circondati da una muta chiassosa, che al ritorno a casa osservano dall’alto la folla vivace sul ghiaccio, come li ha voluti dipingere Pieter Bruegel il Vecchio.
Inverno aspro, invece, quello con cui i romantici tedeschi e inglesi identificavano lo spirito nordico. Nel dipinto dell’inglese William Turner ‘Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi’ (1812), viene rappresentata la potenza distruttiva della natura invernale che domina la scena, eclissando gli uomini. Un inverno a volte desolante e straniante, altre impetuoso e aggressivo, compare nei dipinti del tedesco Caspar Friedrich. ‘Il mare di ghiaccio’, conosciuto anche come ‘Il naufragio della speranza’ (1811), infonde un immediato senso di sopraffazione davanti a un ammasso irregolare, incontenibile e pericoloso di acuminate lastre di ghiaccio in movimento; mentre in altre opere, come ‘Paesaggio invernale con chiesa’ e ‘Paesaggio d’inverno’ (1811), le ombre scure rimangono sullo sfondo e l’atmosfera cupa viene attutita dal candore della neve in primo piano.

Un inverno eccezionale viene magistralmente descritto in letteratura, nell’affascinante romanzo di Virginia Woolf ‘Orlando’ (1928), nelle pagine in cui si parla del Grande Gelo, una piccola era glaciale a tutti gli effetti. Tra il 1608 e il 1695 il Tamigi gelò completamente bel dodici volte e il pack ghiacciato raggiunse i 30 cm di spessore. Era talmente resistente da permettere la creazione di grandi ‘Fiere sul ghiaccio’, con percorsi, luoghi di commercio e divertimento. In quel secolo l’ondata di gelo si fece sentire in tutta Europa e sulle Alpi i ghiacciai raggiunsero il massimo della loro estensione. Molte popolazioni della Savoia e del Tirolo dovettero spostarsi dai loro villaggi. A Londra, l’eccezionalità dell’evento diede vita ad attività di ogni genere sul fiume gelato: si aprirono negozi di barbieri, si crearono barche a slitta, si arrivò ad organizzare le tradizionali caccia alla volpe lanciando sul ghiaccio le prede, ci si dilettava al gioco delle bocce e del pallone, ci si ubriacava con bevande alcoliche calde, oltre che pattinare e passeggiare. Scrive la Woolf: “Il Gran Gelo fu, secondo quello che tramandarono gli storici, il più rigido che mai avesse colpito le nostre isole. Gli uccelli gelavano a mezz’aria e cadevano a terra come sassi. A Norwich, una giovane villana, la quale si era accinta ad attraversare la strada in ottima salute, fu vista dagli astanti andar in polvere e volare in un angolo al di sopra dei tetti, all’urto del vento gelido. Immane era la moria negli ovili e nelle stalle. I cadaveri gelavano e non potevano essere rimossi. Non era raro imbattersi in interi branchi di porci che il freddo aveva colto e solidificato in mezzo alle strade, una specie di pietrificazione”. Le cronache dell’epoca aggiungono ancora che il fiume luccicava alla luce dei falò che non riuscivano a sciogliere il ghiaccio che aveva la durezza dell’acciaio ed era talmente trasparente che si poteva scorgere sul fondo qualche imbarcazione affossata e imprigionata.
Lunghi inverni rigidi, dai contorni tragici, difficili ma familiari sono i protagonisti dei romanzi russi. ‘La tempesta di neve’ (1831) di Alexander Pushkin descrive la tormenta, ambientazione del racconto: “Il vento ululava, le imposte tremavano e sbattevano, tutto pareva minaccia e triste presagio”. E infatti la bufera interviene nei destini dei protagonisti e cambia le loro vite. Mur’ja non riuscirà a sposare il fidanzato perché il giovane, bloccato dalla neve alla vigilia delle nozze, non trova la via della chiesa. E ancora di inverno russo si parla nel romanzo ‘Il dottor Zhivago’ (1957) di Boris Pasternak, dove la tundra coperta di neve scintilla al sole e ci fa sognare. Troike che corrono veloci sulla superficie innevata, l’ululato dei lupi, i colbacchi di folta pelliccia e il silenzio che solo l’inverno sa reggere sono quasi vivi e palpabili, mentre il freddo e il gelo sono in contrasto con il calore delle relazioni umane.

L’inverno è amato da pochi, è una stagione solitaria, senza fronzoli e attrattiva immediata, quasi incolore, zitto e sfuggente da ogni percezione di movimento e vitalità ma il suo fascino discreto e pudico ha dato origine a molte pagine di letteratura, dipinti, brani musicali che ne hanno colto i segreti trasformandoli in emotività pura. Marcela Serrano scriveva: “Mi sono affezionata all’inverno perché sento che è vero, non come l’estate che vola via e sembra così divertente e allegra ma non lo è, perché il sole è sempre di corsa e lascia tutti con l’amaro in bocca. L’inverno non pretende di confortare, ma in fin dei conti sento che è consolante, perché una si raggomitola su se stessa e si protegge e osserva e riflette, e credo che soltanto in questa stagione si possa pensare per davvero”.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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