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di Francesco Fiore

Cinquant’anni fa Martin Luther King riceva il premio Nobel per la pace. Col suo famoso discorso “I have a dream”, negli anni Sessanta guidava la comunità afroamericana nella lotta contro la discriminazione, i linciaggi, la negazione dei diritti e i soprusi nei confronti dei neri d’America perpetrata dai sostenitori del White power. Ma la pacificazione non è si è compiuta. Duri scontri si verificarono nel ’92 con i Los Angeles riots provocati dall’assoluzione degli agenti che pestarono un inerme Rodney King, fino ad arrivare alle proteste di Ferguson dopo la morte di Michael Brown solo l’anno passato. In mezzo a questi eventi, che hanno attirato l’occhio dei media sul tema della discriminazione degli afroamericani, c’è una storia quotidiana di violenza e omicidi di americani di colore. “Stiamo parlando di un afroamericano ucciso ogni 3-4 giorni, esattamente la stessa cronologia dei linciaggi dei primi decenni del secolo scorso”, spiega Isabel Wilkerson, prima reporter nera a vincere il premio Pulitzer. A questo l’inviato del Guardian Gary Younge aggiunge altri dati che mostrano lo squilibrio sociale tra i bianchi e neri come l’aspettativa di vita e la mortalità infantile. Questo fenomeno, secondo Wilkerson, deriva da un sistema di caste basato sull’aspetto degli individui che ha le proprie radici nel periodo dello schiavismo. Caste che sono pericolosamente flessibili, permettendo così di spostare la paura e l’odio di chi ha il potere verso nuove minoranze. Come conferma Younge, “è difficile sottovalutare il ruolo della razza nella determinazione delle diseguaglianze, ma in realtà è una questione di potere”, che la casta bianca ha paura di perdere. Questa interpretazione delle dinamiche sociali americane, ma non solo, sposta l’attenzione e il timore della maggioranza verso gli immigrati, sovrapponendo e incrociando i due temi e creando i presupposti per l’estremizzazione delle posizioni repubblicane, come dimostrato dalle frasi di Donald Trump nella sua assurda campagna elettorale. Il magnate americano, secondo Wilkerson, sta cavalcando la paura dei bianchi che non hanno votato per Barack Obama, la cui vittoria (ottenuta grazie ai voti della comunità nera, ispanica e asiatica) ha causato un contraccolpo che ha rinvigorito i timori della casta dominante. Secondo Younge inoltre “la vittoria di Obama è un simbolo di cambiamento, che non va però confuso per la sostanza. Un progresso che è di Obama ma non è della collettività”.
Secondo l’attivista Jose Antonio Vargas, immigrato americano di origine filippina ma di nome ispanico, è necessario riconsiderare il concetto di cittadinanza, connettendo i discorsi riguardo alla razza e all’immigrazione col filo comune dell’umanità e dell’empatia, così difficile da provare per chi è diverso nell’aspetto o nella condizione sociale.
La storia è piena di esempi di minoranze discriminate che si trasformano in discriminanti, come l’Italia divisa tra nord e sud che ora è unita contro migranti e minoranze etniche. La vera sfida è fermare questo circolo per cui il dominato diventa dominante cercando di concentrarsi sulla natura umana invece che sulla razza.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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