I “40 giorni per la vita”
Cosa c’è dietro le proteste antiabortiste davanti agli ospedali
Tempo di lettura: 10 minuti
di Alessandra Vescio
articolo originale in Valigia blu del 4 aprile 2023
Di fronte la clinica di salute sessuale e riproduttiva MSI Reproductive choice di Brixton, a Londra, una donna legge in piedi accanto a un quadro che raffigura la Madonna e due cartelloni, uno con l’immagine di una mamma e un bambino sorridenti e la scritta “Love them both” (Amiamo entrambi) e l’altro con un numero di telefono a cui sono invitate a chiamare donne in gravidanza e che cerchino aiuto morale, economico e pratico. Resterà lì per qualche ora e poi qualcuno arriverà a darle il cambio, mi dice quando le chiedo informazioni. Accanto l’ingresso della clinica, c’è un uomo inginocchiato con un rosario in mano. “Siamo qui dalle 8 di mattina fino a tarda sera. In questo periodo stiamo cercando di fare di più, perché siamo in Quaresima, sai”, afferma.
I “40 giorni per la vita”
Ogni anno infatti, durante i quaranta giorni che precedono la Pasqua e successivamente in autunno, un movimento internazionale che prende il nome di “40 days for life” organizza sit-in di preghiera di fronte a cliniche che garantiscono l’accesso all’aborto. L’obiettivo, si legge sul sito del movimento, sarebbe quello di “mandare un messaggio alla comunità sulla tragica realtà dell’aborto”, e a partecipare sono diversi gruppi religiosi, locali e internazionali.
Nato in Texas in seguito all’apertura di un centro di salute sessuale e riproduttiva dell’organizzazione Planned Parenthood, questo movimento si è poi espanso prima a livello nazionale e poi internazionale. A Francoforte, ad esempio, un gruppo di manifestanti dei “40 days for life” si è riunito davanti un centro di consulenza su sessualità, gravidanza e contraccezione, ha esposto cartelloni con slogan come “Unborn lives matter” (Le vite non nate contano) o “L’aborto non è una soluzione” e ha iniziato a pregare.
In Italia invece il movimento “40 days for life” ha ispirato la nascita dei “40 giorni per la vita”, una campagna al momento ufficialmente presente a Bergamo e Sanremo e promossa dall’associazione Pro Vita & Famiglia. Durante i “40 giorni per la vita” che, a differenza dell’evento internazionale, sono iniziati a fine dicembre e terminati a febbraio, un gruppo di manifestanti si è ad esempio presentato di fronte l’ospedale di Treviglio, esibendo, oltre alle raffigurazioni religiose, l’immagine di un medico e un bambino e la scritta “Meglio in braccio che sulla coscienza”.
Movimenti religiosi e posizioni antiabortiste
I “40 days for life” non rappresentano l’unico momento in cui cliniche e ospedali che garantiscono servizi di interruzione volontaria di gravidanza vengono presi di mira in diversi paesi nel mondo da gruppi antiabortisti. Molte di queste associazioni hanno carattere religioso e si riconoscono per le iconografie e i simboli che portano ai presidi, ma mentre i gruppi evangelici sono spesso descritti come più aggressivi nel loro modo di protestare, i gruppi cattolici, come quelli presenti di fronte la clinica di Brixton, hanno una strategia diversa.
Definendosi come gruppi “pacifici” e con l’unico intento di pregare fuori dalle cliniche e offrire soluzioni alternative all’aborto, si rivolgono alle donne che stanno andando ad abortire chiamandole “mamme” e danno informazioni errate e fuorvianti sulla procedura dell’interruzione volontaria di gravidanza. Sui volantini distribuiti fuori dalla clinica di Brixton, ad esempio, si legge che “la gravidanza è un fattore di protezione contro il suicidio” e che “1 aborto su 10 provoca infezioni all’utero”. Nel caso specifico delle infezioni all’utero viene citata come fonte una pagina web del Servizio sanitario nazionale (NHS) che però non è disponibile. Sul sito dell’NHS è invece spiegato che le infezioni all’utero in seguito a un aborto si verificano in un numero ridotto di casi e tendono a essere curate per tempo.
La ragione dietro il ricorso a queste informazioni pseudoscientifiche è legata a una questione di efficacia. Molti di questi gruppi, infatti, hanno scelto di intrecciare, spesso anche anteporre, alle loro posizioni religiose la divulgazione di dati e notizie inesatte presentate però come prove tangibili e “scientifiche” del pericolo dell’aborto. Allo stesso modo, diverse associazioni a carattere religioso hanno introdotto i diritti umani e i diritti delle donne nelle loro argomentazioni, iniziando a sostenere che poiché l’identità di una donna si manifesta e coincide con la maternità, l’aborto non può che essere frutto di una costrizione dall’esterno e rappresenta dunque un tradimento verso la sua natura e un attacco ai suoi diritti.
Il tema dei diritti umani viene ripreso anche da gruppi antiabortisti non religiosi. L’organizzazione americana pro-vita Rehumanize International ad esempio ha definito il ribaltamento della sentenza Roe V. Wade da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha portato all’eliminazione del diritto all’aborto a livello federale e lasciato ai singoli Stati il potere di decidere in merito all’accesso all’IVG, come “un momento di celebrazione per questa monumentale espansione dei diritti umani”. Rehumanize International infatti si autoproclama un’organizzazione “per i diritti umani dedicata alla creazione di una cultura di pace e vita” che si oppone a “tutte le forme di violenza aggressiva contro l’essere umano”, tra cui vengono incluse la violenza da parte della polizia, ma anche l’aborto e l’eutanasia. Tra le altre cose, Rehumanize International organizza presidi di fronte ai centri che offrono il servizio dell’interruzione volontaria di gravidanza per “incoraggiare attivamente le persone che intendono abortire a scegliere la vita”.
L’impatto sulle donne
Qualunque sia il metodo o la ragione dietro le proteste fuori dalle cliniche, ciò che resta invariato è l’impatto che queste azioni hanno sulle donne.
L’organizzazione britannica che si occupa di diritti riproduttivi British Pregnancy Advisory Service (BPAS) gestisce un database di testimonianze di donne e persone che le accompagnano nelle cliniche per abortire. “La loro esperienza”, ha raccontato a Valigia Blu Rachael Clarke, responsabile staff della BPAS, “è che si sentono molestate ed è una situazione che provoca loro un grande disagio. Si sentono giudicate dalle persone che incontrano fuori dalle cliniche, e questo le fa sentire molto turbate riguardo alla decisione che stanno prendendo”.
“È anche una questione di privacy”, ha detto Clarke. “L’attenzione viene attirata su di loro, rendendo molto difficile l’idea di accedere a cure mediche private e riservate, perché la gente le osserva mentre arrivano e vanno via. In alcuni casi, temono di imbattersi in persone che conoscono, che stanno fuori dalle cliniche e che sanno che stanno andando ad abortire. Non importa che si tratti di preghiere ‘silenziose’, che vengano avvicinate da qualcuno o che vengano loro dati dei volantini. In ogni singolo caso, le donne ci hanno detto che queste azioni provocano loro un profondo stress e sentono di essere molestate”.
Greg Irwin, medico all’ospedale Queen Elizabeth di Glasgow dove a febbraio un gruppo di antiabortisti si è riunito per i “40 days for life”, ha riferito che questi manifestanti intimidiscono, molestano e turbano molto le donne che accedono alla struttura sanitaria e lo staff che vi lavora, e lasciano le persone in lacrime. Ad Albury, in Australia, le proteste dei gruppi anti-aborto che per anni si sono tenute fuori l’unica clinica della città che offriva l’accesso all’IVG avrebbero provocato profondi traumi e disagi alle donne, soprattutto adolescenti, che si erano rivolte alla struttura.
I manifestanti avrebbero anche fotografato, filmato e preso nota dei nomi delle donne che accedevano alla clinica, e una donna ha raccontato che i membri di un gruppo religioso hanno bloccato l’ingresso della struttura, l’hanno circondata e hanno iniziato a mostrarle immagini esplicite di bambini morti. La donna aveva scelto di abortire perché il feto presentava malformazioni e danni cerebrali e la sua vita era in pericolo.
Se i presidi davanti le cliniche che si occupano di salute sessuale e riproduttiva rappresentano un momento di turbamento per le donne che vogliono interrompere una gravidanza, il disagio può essere ancora più profondo per coloro che cercano supporto psicologico o consulenza, per quelle che abortiscono per un problema di salute o se le proteste si verificano di fronte un ospedale, dove le pazienti accedono per svariati motivi. Un’azione “colpevolizzante per la donna” è come ad esempio la Dottoressa Alessandra Kustermann ha definito l’affissione di un cartellone contro l’aborto di fronte la clinica ostetrico-ginecologica Mangiagalli di Milano nel 2019: “Era un brutto messaggio per le donne, sia per quelle che avevano scelto di interrompere la gravidanza, magari in seguito a una diagnosi prenatale patologica di anomalia del feto, sia per quelle che avevano avuto un aborto spontaneo”, ha ricordato Kustermann che della Mangiagalli è stata primaria fino allo scorso anno. Dall’altro lato, Claudia Hohmann, direttrice del centro di Francoforte preso di mira dal movimento “40 days for life” ha dichiarato che le pazienti si sentono ora anche intimidite nel chiedere assistenza.
L’evoluzione delle proteste e i legami internazionali
Se è vero, come dice ad esempio Kustermann riguardo al contesto italiano, che queste proteste ci sono sempre state, molti medici e attivisti stanno notando un’intensificazione e un inasprimento delle azioni.
“Dal 2014 abbiamo visto un aumento nel numero e nell’intensità delle proteste fuori dalle cliniche britanniche”, ha detto a Valigia Blu Rachael Clarke. “Prima di allora, invece, erano soprattutto gli anziani del posto a presentarsi e a pregare fuori dalle cliniche, ma erano solo loro e non avevano modo di coordinarsi. Dal 2014 in poi abbiamo assistito a una maggiore standardizzazione delle tattiche e a un maggiore coordinamento, e penso che questo sia molto legato alla crescita dei gruppi antiabortisti americani che hanno iniziato a lavorare molto all’estero. Abbiamo assistito alla crescita di varie organizzazioni internazionali fondate in America e gestite poi su base locale. Quindi ora si possono trovare persone della parrocchia locale che si presentano all’esterno delle cliniche, ma che ricevono finanziamenti da parte di qualche organizzazione americana. I manifesti, le candele, i siti web: si pubblicizzano tutti allo stesso modo. Adesso c’è molta più organizzazione e coordinamento”.
Il coordinamento a livello internazionale di cui parla Clarke è riscontrabile in gruppi come Helpers of God’s precious infants (“Gli aiutanti dei preziosi infanti di Dio”), fondato a Brooklyn e oggi molto presente nel Regno Unito e in Australia. Gli Helpers of God’s precious infants organizzano “veglie di preghiera” settimanali e mensili fuori dalle cliniche che forniscono servizi di IVG i cui partecipanti si dividono in coloro che pregano e coloro che si avvicinano alle donne che stanno per accedere alla clinica per convincerle a non abortire.
Compassion Scotland, invece, è stato fondato a maggio 2022 con l’obiettivo di supportare le proteste fuori dalle cliniche che garantiscono l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza in Scozia. Nonostante si descriva come gruppo indipendente, Compassion Scotland è stato accusato di ricevere finanziamenti o di essere in qualche modo collegato a gruppi contro l’aborto nazionali e internazionali, come Society for the Protection of Unborn Children, il primo gruppo antiabortista britannico, e Alliance Freedom Defence, organizzazione della destra americana che Southern Poverty Law Center ha definito come “gruppo d’odio” e che negli anni è stata sempre più presente e influente non solo nella politica americana ma anche in quella internazionale.
Molte delle proteste fuori dagli ospedali italiani, che sono spesso promosse anche da Pro Vita & Famiglia, vengono invece organizzate da Ora et Labora. Responsabile tra le altre cose dell’affissione del cartellone di fronte la clinica Mangiagalli nel 2019, Ora et Labora aderisce al movimento ’40 days for life’ ed è anche tra le associazioni aderenti alla Manifestazione per la vita che si terrà a Roma a maggio, a cui partecipa anche CitizenGO, organizzazione internazionale attraverso cui i principali gruppi americani anti-LGBT e antiabortisti sono riusciti a penetrare nella politica italiana.
I presidi organizzati da Ora et Labora fuori dagli ospedali vedono spesso anche la partecipazione del Comitato NO 194, che chiede l’abrogazione della legge 194 e che sul sito web si dichiara non pro-life ma antiabortista. Del Comitato NO 194 fa parte il Presidente della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana, molto vicino anche alle associazioni che oggi rappresentano la “colonna portante del movimento contro i diritti riproduttivi e LGBT in Italia” e che hanno legami molto stretti con la destra e l’estrema destra italiane e i principali leader antiabortisti americani. Tra queste, vi è Pro Vita & Famiglia, nata dall’unione dei gruppi ProVita e Generazione Famiglia.
In Italia però i movimenti antiabortisti non si trovano solo fuori dagli ospedali, ma anche al loro interno. Il Movimento per la vita, uno dei più importanti gruppi contro l’aborto in Italia, è ad esempio presente in molte strutture sanitarie pubbliche attraverso i cosiddetti “Centri di aiuto alla vita”, che hanno lo scopo di convincere le donne a non abortire. Un volantino fornito in uno di questi centri che citava “i gravi rischi” dell’aborto è stato definito da Silvana Agatone, ginecologa e Presidente di Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della legge 194/78 (LAIGA), come “una manipolazione dell’informazione senza alcuna seria base scientifica”. Il Movimento per la vita si definisce autonomo, ma sarebbe in realtà affiliato a Heartbeat, organizzazione cristiana nata in America e presente oggi a livello internazionale. Heartbeat opera sul territorio tramite i cosiddetti Crisis pregnancy centers, che, come i Centri di aiuto alla vita, hanno lo scopo principale di dissuadere le donne dall’abortire: per farlo, vengono ad esempio date informazioni false e pericolose, come il sostenere che l’aborto aumenti il rischio di cancro o che la gravidanza possa guarire da gravi malattie.
Il contrasto alle proteste fuori dalle cliniche
L’aggressività delle proteste fuori dalle cliniche che offrono il servizio dell’IVG ha portato alcuni aesi a stabilire le cosiddette “buffer zone”, ovvero zone cuscinetto in prossimità delle strutture sanitarie all’interno delle quali sono vietate le azioni anti-aborto. Queste zone cuscinetto sono state introdotte ad esempio in Australia, in Ontario, nell’Irlanda del Nord. In seguito a una lunga campagna per chiedere una legge che vietasse le proteste fuori dalle cliniche, a marzo anche l’Inghilterra e il Galles hanno approvato l’introduzione di zone cuscinetto. In Spagna invece intimidire o molestare chi entra in una clinica per un’interruzione volontaria di gravidanza è diventato reato lo scorso anno.
“Non puoi costringere nessuno a portare avanti una gravidanza per conto di un altro”, ha detto la dottoressa Kustermann a Valigia Blu. Anzi, “una gravidanza se non desiderata è equivalente a una malattia, può portare conseguenze psichiche devastanti. Bisogna sempre ricordarsi che non è vero che il non aborto è gratis, a volte è ancora più pesante”. Per questo, dice Kustermann, che si definisce non obiettrice da sempre, “Detesto il termine ‘pro-vita’, perché sembra che noi siamo pro-morte. Noi siamo pro-vita della donna”.
Immagine di copertina da “Catholic Parliamentary Office”
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Un grazie alla redazione per aver dato spazio a questo articolo veramente completo e importante per la documentazione, anche a livello internazionale, della forza negativa, dell’azione brutale e delle alleanze politico-religiose dei gruppi anti-abortisti religiosi o laici che siano, che da anni affliggono le donne di ogni parte del mondo anche nelle nazioni considerate più avanzate nella democrazia, in uno dei loro diritti fondamentali: decidere sul proprio corpo.
Dalle informazioni a livello nazionale che hanno recuperato i diversi nodi del movimento NUDM (Non Una Di Meno) si evince come in Italia i movimenti pro-vita e antiabortisti siano riusciti ad introdursi anche all’interno delle strutture sanitarie, sia con una pubblicità ingannevole su volantini e dépliant presenti nelle sale d’aspetto dei consultori familiari, studi ginecologici privati, cliniche e ospedali, che nella politica delle strutture sanitarie, dove i medici che praticano l’aborto sono sempre di meno e quelli obiettori sempre di più, e nessun responsabile interviene per assicurare alle donne una pratica sanitaria, quella dell’interruzione di gravidanza, che è garantita per legge. La somministrazione della pillola abortiva IVG è in assoluto la pratica più osteggiata dagli antiabortisti, vista come un diversivo pericoloso e troppo semplice e troppo poco sofferto rispetto all’aborto terapeutico e quindi ancor di più osteggiato. Spesso le strutture sanitarie nemmeno la prescrivono, nonostante sia prevista nelle procedure sanitarie definite e approvate dalla Regione in cui ricade la struttura. Se sarà approvata la legge sull’autonomia differenziata rischiamo di ritrovarci con molte amministrazioni regionali che potranno vietare la pratica dell’interruzione di gravidanza, qualunque sia, sul proprio territorio regionale. Purtroppo questo avviene già nella pratica in molte regioni italiane, infatti in questi casi nessuno degli amministratori fa niente per riportare le strutture sanitarie dove tutti i medici sono obiettori a dotarsi del personale adatto ad assolvere la funzione sociale a cui sono devolute, cioè a salvaguardare e garantire la salute delle donne.