Parte 2
Dal primo giorno, tutti i giorni a partire dalle sette di sera quando la biblioteca chiude al pubblico, Rosa Wolfe, che mi ha preso in grande simpatia, mi racconta un mucchio di storie interessanti. Interessanti non dice abbastanza, perché Rosa diventa ogni giorno più misteriosa, quindi profetica, infine apocalittica. Su Truro, questa sarà la sua conclusione, si sta addensando un “cataclisma psichico”. Usa proprio questa espressione, impropria, disturbante. Secondo lei, da forestiero e da giornalista, io solo posso fare qualcosa per evitarlo. La cosa mi imbarazza, sarà anche un po’ eccentrica, o una spostata, ma Rosa mi piace. E sento confusamente che “non è solo matta”, che c’è qualcosa di troppo strano a Truro per non portare a un qualche male.
Ma ora è ancora la mia prima sera, la bibliotecaria incaricata mi accompagna fino all’uscita. “Se ti va di ascoltare altre frottole, io domani sono sempre qui”, ride, forse mi prende solo in giro, come si fa con chi arriva da fuori. Sono le dieci e mezza, senza rendermene conto sono rimasto in biblioteca quasi quattro ore; è buio pesto, e domattina comincia il campionato. Alle 7 in punto.
Capisco l’impazienza del lettore, sempre che il campionato pareidolico abbia suscitato in lui un qualche interesse. Forse mi sono disperso troppo, ho imboccato viottoli laterali, ho divagato, sono andato fuori dal seminato. Mi succede, mi succede spesso, ma come dice il mio caporedattore, alla fine il cerchio si chiude sempre. E quando si chiude? Ora si chiude. Infatti, ecco che vi presento i sette concorrenti e le loro precipue caratteristiche e straordinarie abilità.
Numero uno: Il Polacco, quello con gli occhi bianchi che avevo intervistato al mio arrivo. Circa sessant’anni, un aspetto da profugo dell’est, voce stridula, sguardo allucinato. La specialità del polacco sono i felini. Lui nelle nuvole vede, immagina – millanta? – solo rappresentanti della famiglia dei felini, dal gattino miagolante fino al leone rampante in varie pose e maniere.
Poi c’è l’Inglese, le sue pareidolie si concentrano su treni, locomotive e vagoni di ogni marca, epoca e fattura. Il numero 3, il Gallese, nelle nuvole vede animali mitologici, preferibilmente divinità olimpiche e costellazioni.
Veniamo all’Irlandese: la sua specialità sono le figure della mitologia silvestre e celtica in particolare (quelle sopra elencate ed altre ancora).
Il Bretone invece è specializzato in grandi personaggi storici; al precedente Campionato Mondiale fece scalpore la sua performance: in una settimana vide 43 volte Napoleone in diverse fogge e posture. Perché questa ossessione per Napoleone? Gliel’ho chiesto, e la risposta mi ha spiazzato: “Perché Napoleone Bonaparte non è Corso, in realtà è nato in Bretagna”.
Che potevo dirgli? Nulla, ho girato l’angolo e ho cercato il sesto concorrente, l’Islandese, un tipetto scontroso, spigoloso, irsuto, non privo però di una asprigna eleganza: le sue nuvole sono popolate da foche giocherellone e da orsi polari. Bianchi naturalmente, e proprio su quel bianco Il Bretone aveva avuto in passato da eccepire e aveva protestato con la giuria. La tesi bretone era che vedere un orso bianco su una nuvola bianca significava un vantaggio indebito per il concorrente islandese. Lui, sosteneva, faceva cento volte più fatica a vedere il Bonaparte di quanto non ne facesse il piccolo Islandese con un semplice orso bianco.
Dopo averne discusso per tre ore, i tre vecchietti del comitato organizzativo, che funge anche da Giuria inappellabile, aveva respinto il ricorso. Come a dire: uno nelle nuvole ci può vedere ciò che più gli aggrada: “Perché, senza attenersi a un’assoluta libertà, ogni pareidolia si dissolve nell’aria”, leggo nel verdetto.
Manca solo il settimo, Il Praghese, nazionalità ceca ma di lingua tedesca e mamma ebrea (“lo sa, sono un lontanissimo cugino di Franz Kafka”). E’ lui il fuoriclasse, il campione in carica, il vincitore di due delle tre edizioni già disputate. Si chiama Laszlo Hazek e decido di passare con lui la prima giornata di gara. Di lui mi aveva parlato malissimo la bibliotecaria. Quando aveva pronunciato il suo nome, avevo visto un tremito percorrere la signorina Wolfe dall’alto al basso, dalla cima della testa bionda cotonata agli stivaletti neri senza tacco.
Laszlo mi da dà appuntamento alle 7 precise davanti alla cattedrale, munito di bicicletta, borraccia e qualche sandwich. È vestito in abiti scuri e assurdamente pesanti, in cima alla testa a pera un cappellaccio nero a larga tesa.
Il polacco mi stava ancora esponendo la sua teoria sul Triangolo Magico, ma arriva lo sparo del presidente della giuria, allora mi congedo in fretta e per accodarmi alla bicicletta di Laszlo che punta deciso verso la campagna e il mare.
È una giornata di mezzo sole e vento leggero. Superiamo un piccolo dosso, basse sull’orizzonte ecco le prime nuvole. Laszlo si ferma, le osserva per qualche minuto, scuote la testa e riprende a pedalare. Anche se sono solo un neofita, mi sto appassionando al tema, punto il naso in alto e nel cielo vedo chiarissimamente un treno a vapore, con tanto di locomotiva sbuffante e tre vagoni al seguito. Ma intanto il Ceco mi ha già staccato, forse l’ho perso in quell’intrico di stradine; finché lo ritrovo fermo dietro una doppia curva, lo sguardo assorto, in una mano un taccuino, nell’altra una piccola matita. Non sembra un tipo molto socievole questo Laszlo, ma io devo fare il mio lavoro, e allora domando: “Sta annotando il suo primo avvistamento?”. Mi risponde in un inglese stentato, e mi accorgo che la sua voce è cambiata, assomiglia a qualcosa di inanimato, a una frana di pietre che rotola nella pioggia, o a un rantolo affannoso, al sibilo di un asmatico. Laszlo smette di scrivere e si volta verso di me: “Oggi si comincia bene, sono già al numero 9, e se la fortuna continua a assistermi…”.
Rifletto… 9 pareidolie, dico NOVE, e in meno di mezz’ora! Ma chi controlla la regolarità degli avvistamenti?
Non vedo nessun giudice all’orizzonte, nel raggio di chilometri ci siamo solo io, Laszlo e le nostre biciclette. Con tutto il rispetto per il campione, mi sembra che Lazlo l’abbia sparata grossa, come Giovannino senza paura che stermina le mosche posate sul cacio fresco: Sette in un colpo! Allora anche io potrei dire di aver visto in cielo non un treno ma un’intera stazione, un deposito ferroviario, una fabbrica di treni.
Devo assolutamente chiarire la cosa con la giuria. Ma intanto Laszlo è ripartito in direzione sudest, e io dietro, mentre il vento rinforza e il cielo si affolla di nubi. Lazlo sembra instancabile. Solo dopo una quantità non numerabile di strade, stradine, viottoli, andate e ritorni, curve, salite e discese, e nuvole naturalmente, alle sei e mezza del pomeriggio prendo congedo da Laszlo (lui andrà avanti fino al tramonto) per tornare in Truro e infilarmi in biblioteca.
Non so come sia andato il primo giorno di caccia degli altri concorrenti, ma la performance venatoria di Laszlo fa impressione. O bisognerebbe chiamarla pesca miracolosa? Devo credere o diffidare? Entro in biblioteca e mi butto sopra una sedia, stanco da morire. stanchissimo. Alla mia amica Rosa Wolfe, tenutaria della biblioteca e depositaria della memoria loci, ho però alcune domande da porre. La giornata in compagnia del praghese mi ha ingarbugliato i pensieri. Le chiedo se devo credere a tutti gli avvistamenti, e cosa avvista questo misterioso Laszlo, animali, piante o persone? “Non l’ha ancora capito? Lui nelle nuvole vede le persone che se ne sono andate”. Ancora non capisco. Rosa abbassa il tono della voce: “Lui vede quelli che non ci sono più, quelli che se ne sono già andati dall’altra parte”; e in un sussurro: “Lui vede i morti”. Perché, mi spiega, il praghese non è solo un esperto di nuvole presenti e viventi, lui è un evocatore, un tramite, una specie di medium. “Per questo Laszlo è pericoloso, molto pericoloso. Lui gioca col fuoco, capovolge il mondo.”.
La paffuta Rosa Wolfe sembra improvvisamente spaventata, mi correggo, Rosa Wolfe è in preda al terrore. terrorizzata: “Dobbiamo sperare solo che non succeda…”. Allora mi ribello a quel dire e non dire: MA SUCCEDA COSA? COSA CAZZO DEVE SUCCEDERE? Questo Rosa non me lo dice, forse perché nominare una cosa può contribuire a farla accadere.
Mi è passata la fame, non ho nemmeno sonno, penso a Laszlo e a Rosa; le loro parole, gli sguardi, i silenzi mi hanno messo una pietra sullo stomaco. Come Primo Giorno può proprio bastare. Raggiungo la locanda, è una notte chiara illuminata da un miliardo di stelle, ma questa volta non riesco a sentire nessun incanto, nessuna emozione davanti a quella esibizione di infinito. C’è qualcosa di strano, e anche le stelle non mi sembrano le solite stelle. A Londra sono abituato a vederne una ogni tanto, qui invece si esagera.
Attraverso la piazza notturna di Truro a piedi, lentamente, tengo la bicicletta con la mano destra, come un cavallo alla briglia. In una frazione di secondo tutto si illumina a giorno, dal campanile all’ultimo granello di ghiaia. Accecato, lascio cadere a terra la bicicletta, e prima che raggiunga il selciato mi raggiunge un tuono spaventoso, e subito dopo un vicinissimo schianto, come se i tedeschi avessero minato la Torre di Londra.
Di quel fulmine a ciel sereno vedrò gli effetti la mattina dopo. La quercia secolare alle porte della cittadina è stata squarciata da una bomba di fuoco. I resti del suo tronco enorme e nero continueranno a fumare per tutta la settimana.
continua …
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
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