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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Parte 3

La sera del Secondo Giorno un altro presagio. Sulla piazza di Truro, alle otto in punto, si sono dati appuntamento tutti i gufi, le civette, i barbagianni e gli altri uccelli notturni. Non so da dove vengano e cosa vengano a fare, so solo che saranno almeno un centinaio.
Esco dalla biblioteca insieme a Rosa Wolfe. Guardiamo i gufi che ci guardiamo. Mi pare di essere dentro al solito Harry Potter, ma non riesco proprio a sorridere.

Il Terzo Giorno mi aspetta uno scherzo biblico. Sto pedalando quasi tranquillo lungo un piccolo argine, quando mi accorgo che qualcosa non va. Mi fermo di botto e guardo il fiume. Il River Fal, il principale fiume di Truro, quello che per tutti gli abitanti è The River, il loro fiume, ha invertito il corso delle sue acque. Magari è colpa dell’alta marea. Corro in bicicletta fino alla foce, ma il mare riceve benissimo. La in fondo tre  surfisti sono alla ricerca della loro onda. Il fenomeno del fiume contrario dura alcune ore, poi le acque del River Fal tornano a camminare per il verso giusto.

La notte del Quarto Giorno dalla piazza di Truro scompare la grande croce celtica. Al suo posto questa mattina c’è solo un mesto moncherino alto venti centimetri. Sembra tagliato di netto con un bisturi, o una pistola laser interstellare. Il vecchio parroco, l’accaparratore di Incunaboli e Cinquecentine, esce di furia dalla canonica in camicia da notte e papalina in testa. Ha soppresso la funzione delle sei del mattino e vaga come uno spirito per la cittadina, bussa a tutte le porte, lancia terribili maledizioni in gaelico.

Il Quinto Giorno, mentre accompagno in bicicletta il concorrente gallese esperto in nuvole mitologiche, mi raggiunge una notizia portentosa. Un leprecauno è rimasto impigliato in una trappola per le volpi. Il fatto è straordinario e il cronista, benché stanco e provato, accorre sul posto. Non so se vi è mai capitato di vedere un leprecauno, o anche solo di credere alla loro esistenza, beh, vi dirò solo questo: non è cosa adatta ai bambini. Un leprecauno, il suo corpo torto, le sue smorfie, i suoi sberleffi, la sua voce rugginosa e ancestrale, i suoi occhi rossi rubino, è terrore allo stato puro, un pezzo di autentico inferno.

Non riesco più a divertirmi. Quando torno a Londra? Conto i giorni come un prigioniero a fine pena. Oggi è il Sesto Giorno, il penultimo della gara. Forse oggi non succede niente. Invece succede eccome. A mezzogiorno in punto il cielo comincia a imbrunire, un tramonto anticipato. Dopo un quarto d’ora è buio fitto. Sono ancora in sella alla bicicletta, in mezzo al nulla, lontanissimo da qualsiasi riferimento animato. Sono solo, e in compagnia di una paura che rifiuto mentalmente ma che paralizza il mio stomaco, le gambe, le braccia. Dopo dieci minuti di buio interminabile, un breve chiarore si fa strada nella notte. A poco a poco torna il giorno. Era semplicemente una eclissi totale. Peccato che nessuno l’avesse prevista. Una eclissi totale a Truro, mentre un bel sole splende in tutto il resto dell’Europa settentrionale.

Così, senza rendermene conto, anzi, tenendo il cervello il più lontano possibile da Truro, aspettavo la sciagura. Sarebbe arrivata, sicurissimamente, aveva detto Rosa Wolfe, la bibliotecaria veggente. E ad appesantire il carico c’erano le facce dei concorrenti e della giuria, i silenziosi e sfuggenti abitanti di Truro, l’aria stessa della tranquilla cittadina della Cornovaglia. Ma insomma, fra poco sarebbe finita.

È il settimo giorno, l’ultimo, e seguo in bicicletta il Bretone seguace di Bonaparte. Sono le due del pomeriggio quando il vento rinforza improvvisamente da Nordest. Le nuvole sono altissime, uno spettacolo grandioso. Sembra un film accelerato, le pareidolie non sono fuggevoli immagini ma cortometraggi animati. In quelle particolari condizioni metereologiche Napoleone avrebbe potuto rivivere tutta intera la battaglia della Beresina, e questa volta vincerla. Tra le nuvole.
Poi un lampo accecante, straordinariamente lungo, e subito dopo un tuono di un’ottava cavernosa. Dal cielo mi cade in testa una goccia enorme. Mi strofino la fronte con la mano, apro il palmo, annuso, sembra una goccia di petrolio, ha un odore rivoltante, puzza di benzina e di fogna.
Volto il manubrio e mi metto a pedalare come un forsennato sotto un muro di acqua nera. Corro verso Truro, verso un qualsiasi riparo, scappo via abbandonando al suo destino quel matto del Bretone e il suo Napoleone Bonaparte.

Mentre spingo sui pedali a testa bassa mi accorgo che c’è qualcosa o qualcuno che mi insegue. O forse mi precede, sale dall’erba viscida, dalle rogge che straripano e invadono il sentiero. Sento una cosa tremenda sotto le ruote, mi cattura le scarpe da tennis fradice di pioggia, una bava viscida sale dalla terra verso il cielo in burrasca.  O forse il pericolo scende dall’alto, mi cola sulla testa, le orecchie, il collo. Non capisco, non riesco a vedere l’origine di quel terrore senza nome. Ma il terrore è ormai padrone di me, di tutte le cose animate e inanimate, di tutto il cielo e di tutta la terra. Ma non c’è più un cielo e una terra, un sopra e un sotto, ma un unico noncolore, e un suono sordo che sembra arrivare dalla porta dell’inferno.

Dopo un tempo infinito arrivo nella piazza di Truro. La bicicletta fa uno scarto secco, atterro in mezzo al fango e alla ghiaia. Rimango disteso a faccia in giù. Cosa sta succedendo? Cerco di ricapitolare: il rumore feroce del temporale, il vento che continua a rinforzare, quel suono sordo e feroce che arriva dal centro della Terra, il battito impazzito del mio cuore. Provo ad alzarmi due o tre volte, grido senza voce, mi siedo in terra a gambe larghe. La piazza è un pentolone che bolle. Non c’è nessuno, sono tutti chiusi in casa. Sento le chiavi che girano, i catenacci che chiudono fuori il terrore.
Il cielo si è abbassato appena sopra il tetto delle case, la massa imponente del campanile si vede solo per metà, segato di netto da una linea nera di inchiostro. In biblioteca c’è una luce, allora corro verso la vetrina, entro e sprango la porta. Per terra, seduta sulla moquette color topo, i piedi scalzi, c’è la mia amica Rosa Wolfe. Mi gira le spalle. Mi avvicino, la chiamo per nome una due tre volte; non si volta, non risponde. La prendo per le spalle, la scuoto. Sembra in tranche, gli occhi annebbiati e senza vita. Mi lascio cadere anch’io in terra, di fronte a lei. Chiudo gli occhi, ma a occhi chiusi il terrore diventa più insopportabile. Guardo Rosa Wolfe, solo lei può darmi una risposta. “Ma che sta succedendo? Lei lo sa, vero che lei sa il motivo di tutto questo?”
Rosa Wolfe è assente. Ci mette un bel po’ di tempo per tornare da un altro mondo, ma alla fine sembra risvegliarsi, alza il braccio destro e spinge l’indice in direzione della vetrina. “Li vede? Li sta vedendo? Li vede quanti sono? Fra poco riempiranno tutta la piazza. Poi entreranno nelle case. Chiavi e catenacci non serviranno a nulla. Li guardi bene. Il giorno è arrivato, è il loro giorno e loro sono tornati”.
“Ma chi sono? Lei li conosce?”
“Solo alcuni, pochi. Molti di loro vengono da un tempo lontano.”
“Ma chi sono?”
“Li guardi, vede come sono brutti? Vede i loro vestiti strappati, marci, sporchi di terra? Sente l’odore di morte che entra dalle fessure delle porte e delle finestre? Sente il coro atroce dei loro lamenti? Riesce a vedere, riesce a sentire la rabbia che trasfigura i loro volti?”
Nel settimo giorno di Truro, a compiere il settimo prodigio, la pioggia dei morti scendeva sempre più fitta. I vivi stavano chiusi in casa. Si tappavano gli occhi, il naso e le orecchie, battevano i denti in preda a una febbre altissima.
Anche il povero cronista stava chiuso in biblioteca e batteva i denti. Aveva smesso di prendere appunti, il suo cervello girava a vuoto.
La mia ragione mi aveva abbandonato. Aspettavo, aspettavo e pregavo, che quella pioggia smettesse, che quella fine del mondo finisse.

Fine

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Francesco Minimo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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