Skip to main content

Giorno: 8 Aprile 2022

Al cantón fraréś
Flavio Bertelli: “La bòna nóva” (la buona novella)

 

Dopo Mi e la Frara da ier (ricordi, chiacchiere e fatti di un vecchio mondo) e Ferraresi ritratti (personaggi della Ferrara di un tempo), proposti in questa rubrica, Flavio Bertelli ci sorprende con un adattamento del Vangelo secondo Marco. Tale Vangelo, secondo gli studiosi, è il primo ad essere stato scritto. L’autore con una popolare traduzione in dialetto ferrarese delle parabole, ne rende accattivante la lettura.
Di seguito due brani per questi giorni che ci avvicinano alla Pasqua.
(Ciarìn)
 

Pietro al diś la so

Dit quest, Gesù al va, coi so, vers Cesarea, ai pié dal mont Ermon indù nas al Giordano. Strada faśénd al dmanda: – Cusa peηsa la źént? Cusa disla chi sia? –
– Mah! – a rispónd j’apòstul – Qualcdùn diś ch’at jé Giovàni Batista … –
“… D’j’àltar ch’at jé Elia… –
-… E d’j’àltar ancora ch’at jé un di profeta! –
– E ti? – al dmanda Gesù diretament a Pietro – Ti, chi pénsat che mi a sia? –
– Par mi t’jé Crist! – a rispond Pietro – al Fiòl ‘d Dio! –
Gesù al li guarda tuti uη pr’un e, sibén al gh’j’àbia tuti int al cuór, a tuti al s’arcmànda d’an dir gnént.

 

Confessione di Pietro
Poi Gesù coi suoi discepoli andò per i paesi di Cesarea di Filippo, e per la strada chiese ai suoi discepoli: La gente chi dice ch’io sia? Essi risposero: Chi dice che sei Giovanni Battista, chi Elia, chi uno dei profeti. Allora disse loro: E voi chi dite ch’io sia? Pietro rispose: Tu sei il Cristo. E vietò loro di parlarne ad alcuno.

 

Gesù al conta com sarà la so pasión

Ed eco che Gesù, ciacarànd ben ciàr par fàras capìr, al s’mét a cuntàr che as furmarà na cumbrìcula di sòlit ach sa ad létra e che, dop avéral fat patìr al so bel póch, j truvarà al mòd ad fàral murìr. Lu però, parché acsì al sarà al vlér dal Pàdar, al risusitarà tri gióran dop.

As punt chi Pietro al la ciama da na part e al la rimpròvera par quél cal diś, e alóra l’è Gesù che al g’dà al so avér e al la fa davanti a j’apòstul: – Ti t’aη raśóni briśa sgónd Dio, ma sgónd Pietro, e alóra at pó aηch far fagòt e andàrtin! –

E po’ al ciama tuti, źént e apòstul, e al precìsa ben: – Mitén iη ciar ill cundizióη na volta par tuti: chi vol gnir coη mi al dév tór la so cróś e purtàrsla iη spala, ma chi vol salvàr la so vita seηza peηsàr a l’anima, al pòl métar źó l’idea ad salvàr al Vangelo! Che intarès g’al un òm ad métras iη bisàca tut l’òr dal mond, se po’ al pèrd l’anima? E se, quand a gnirà al so mumént, al vra l’anima, cusa agh daràl iη cambi? Sia beη ciàr ‘n àltar quèl: chi vol gnir coη mi iη mèź a tuta sta źént pina ad pca, al faga iη mod da η’vargugnàras briśa, parché Dio al s’putrìa vargugnàr d’vuàltar! E, da źa ch’a c’sén, av vój aηch dir che iη mèź a vuàltar agh è źa soquànti ch’aη gustarà briśa la mort prima d’avér vist arivàr la Gran Luś ad mié Pàdar.– (…)

 

Profezia della passione
Poi incominciò a insegnare a loro come il Figlio dell’uomo dovesse patir molto e venire riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli Scribi, ed essere ucciso, e risuscitare tre giorni dopo. E parlava di questo apertamente. Ma Pietro trattolo in disparte, cominciò a biasimarlo. Ma egli voltosi in presenza dei discepoli, sgridò Pietro dicendo: Vattene via da me, Satana, perché non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini.

E chiamata la gente insieme coi suoi discepoli disse loro: Se alcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché se uno vorrà salvare la sua vita la perderà; ma chi perderà la vita per me e per il Vangelo, la salverà. E che gioverà all’uomo guadagnare tutto il mondo, se perderà poi l’anima sua? E che darà l’uomo, in cambio dell’anima sua? Chi poi si vergognerà di me e delle mie parole in mezzo a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria del Padre suo cogli Angeli e Santi, si vergognerà di lui. E diceva loro: Vi dico in verità che ci sono alcuni dei presenti i quali non gusteranno la morte prima di aver veduto il regno di Dio venire con maestà…

 

 

 

Tratto da:
Flavio Bertelli, La bòna nóva : dal Vangelo secondo San Marco, Ferrara, Editrice Universitaria, 1982.

 

Flavio Bertelli (Ferrara 1916 – 1983)
Autore e regista teatrale in lingua e in dialetto ferrarese.
Altre note biografiche nel Cantóη Fraréś del 5 marzo 2021 [Qui] .

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia,
esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

In copertina: Gerusalemme, Orto dei Getsemani

I GATTINI NELLA STALLA
Ucraina, due secoli di deportazioni

La lunga storia di deportazioni dell’Ucraina: gli spostamenti forzati che sembra stiano avvenendo oggi sono solo l’ultimo capitolo di duecento anni di migrazioni imposte, dall’impero zarista all’Unione Sovietica.

L’Ucraina non è un territorio martoriato soltanto da febbraio 2022: da sempre, una nazione a cui a lungo non è  corrisposta un’entità statale è esposta alle pretese dei poteri più forti, che ne sottopongono la popolazione a deportazioni e migrazioni forzate. Questi sono tra i mezzi usati dal potere, funzionali allo smembramento dei paesi da assoggettare.

Direzione Siberia

Questo sistema di controllo della popolazione – e di volta in volta usato per raggiungere obiettivi politici o economici che spesso includono la colonizzazione dei territori più remoti –  è largamente impiegato dall’impero russo. Nell’Ottocento, epoca di antisemitismo endemico, tra i popoli presi di mira ci sono innanzitutto gli ebrei, che secondo i censimenti a fine secolo sono ancora il 12% della popolazione del territorio occidentale dell’impero, corrispondente alle attuali Bielorussia, Ucraina, Lituania e Polonia orientale; qui sono costretti a rimanere, perché è loro vietato spostarsi, fino a quando il potere non ne decide la deportazione. Ma a essere vittime dei trasferimenti forzati sono anche 200.000 tedeschi del Volga, i germanofoni discendenti dei contadini immigrati in Russia nella seconda metà del XVIII secolo su invito della zarina Caterina per stabilirsi lungo il medio Volga, ma anche in Ucraina e in Crimea.  Oltre un secolo dopo, i loro nipoti sono costretti a spostarsi di nuovo, ancora una volta verso est: la loro destinazione è la Siberia e le loro terre vengono distribuite a popolazioni di sicura fede zarista.

Queste popolazioni sono anche inviate a est per colonizzare più o meno volontariamente i territori nei quali l’impero si sta espandendo, dando vita a entità amministrative su base ucraina nell’estremo oriente russo.

Il cambio di regime

Con lo scoppio del Primo conflitto mondiale le deportazioni si sommano alla fuga delle popolazioni delle regioni frontaliere dell’impero, per allontanarsi dai pericoli del fronte di guerra, con il risultato che all’alba della rivoluzione bolscevica sono ormai 7,4 milioni i profughi nei territori sotto il controllo russo.

Con il cambio di regime, però, non cambia troppo la strategia di controllo: anche l’Unione Sovietica usa le deportazioni per allontanare dalle aree strategiche i popoli ritenuti meno fedeli, per status socio-economico o appartenenza politica, con il pretesto della loro presunta pericolosità. Stalin, per silenziare i sentimenti indipendentisti e nazionalisti ucraini si spinge oltre, sfruttando l’ancor più radicale mezzo dello sterminio per fame, come fatto proprio in  Ucraina attraverso l’Holodomor.

E prima ancora della Seconda guerra mondiale in migliaia sono fatti trasferire dai territori occidentali dell’Unione alla Siberia e all’Asia Centrale, in direzione di “villaggi speciali” e gulag. Ancora una volta l’Ucraina è particolarmente colpita, finendo per veder cambiare nel giro di pochi anni la propria composizione etnica, con quasi 900.000 persone trasferite complessivamente verso le lande più remote dell’URSS, dai tedeschi ai ceceni, dagli ingusci ai tatari di Crimea, e ancora esponenti delle minoranze ebraica, balcara, calmucca, armena, curda, turca e greca, nei primi anni Quaranta.

I gattini nella stalla

Paradossalmente, per molti ebrei questa deportazione sarà la salvezza, evitando loro di finire nelle mani dei nazisti che fanno strage nei territori occidentali dell’URSS; grazie all’aiuto dei militari Alleati di origine ebraica, molti riusciranno a passare in Palestina e a farlo clandestinamente, dato che, in base agli accordi tra gli Alleati, in quanto cittadini sovietici non potrebbero ottenere lo status di rifugiati e dovrebbero, invece, essere rimpatriati.

Ma anche per chi riesce a ottenere assistenza nei campi profughi alla fine della guerra, il ricollocamento è difficile, perché gli ucraini non compaiono nelle liste di nazionalità che sono la base su cui si innesta l’accoglienza e la gestione dei profughi nelle strutture allestite dagli Alleati nei territori sotto il loro controllo; perplesso di fronte alle difficoltà e preoccupato all’idea di essere considerato sovietico, un profugo sintetizza efficacemente: “Se un gatto va in una stalla dei cavalli a partorire i gattini, li considerate cuccioli di gatto o di cavallo?”.

La difficoltà delle autorità alleate nell’orientarsi nel mosaico etnico-nazionale dell’Europa orientale è imbarazzante – nelle linee guida si afferma che “è impossibile provvedere a una definizione precisa di chi sono gli ucraini. Si può solo dire che essi sono quelle persone che parlano ucraino e che desiderano essere considerati ucraini” – e solo nell’estate del 1947, quando ormai i rapporti tra angloamericani e sovietici sono guastati, gli ucraini compaiono stabilmente nell’elenco delle nazionalità dei campi profughi.

Oggi

Ancora oggi, l’invasione russa dell’Ucraina avviata a febbraio 2022 con l’obiettivo di smembrare il territorio e assoggettare la popolazione, secondo alcune fonti giornalistiche, parrebbe recuperare anche lo strumento delle deportazioni per facilitare il compito. Dopo le polemiche sui corridoi umanitari da Mariupol concessi solo in direzione di Russia e Bielorussia, anziché verso i confini occidentali, la direzione dell’intelligence del ministero della Difesa ucraino ha parlato di 40.000 ucraini portati con la forza in Russia dall’inizio dell’invasione, 15.000 solo da Mariupol in un mese. Secondo il Cremlino, che nega deportazioni, si tratterebbe di migrazioni volontarie. Se i dati saranno confermati, sarà chiaro una volta di più che la lunga storia di deportazioni dell’Ucraina non è ancora finita.

Fonti
– Antonio Ferrara, Niccolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, Il Mulino, Bologna, 2012Guido Crainz, – Raoul Pupo, Silvia Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Roma, Donzelli Editore, 2008Silvia –  – Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2008

Silvia Granziero
Nata tra le nebbie della Pianura Padana, ma con il cuore a est. Laureata in Giornalismo e cultura editoriale, vive a Trieste, dove lavora come autrice freelance e non smette mai di studiare. Volontaria al Trieste Film Festival, è in East Journal da gennaio 2022.

East Journal è una testata registrata presso il Tribunale di Torino, n° 4351/11, del 27 giugno 2011, fondata il 15 marzo 2010, totalmente no-profit, che unisce ricercatori a giornalisti, offrendo un modello di informazione che associa la chiarezza del linguaggio giornalistico alla profondità e competenza del mondo accademico.

Cover:  Deportazione forzata della popolazione di un villaggio dell’Ucraina dell’est da parte di soldati del battaglione Poznan, 1947 (foto Wikimedia Commons)

Evtušenko: “La pace appesa a un sottile capello”.

 

“La pace era appesa a un sottile capello”, sono le parole di un grande poeta e romanziere russo, Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, che oggi vogliamo riscoprire insieme, a conforto di tutti coloro che fermamente credono nell’indipendenza della letteraria e cultura di un popolo dalla follia di alcuni dei suoi governanti. Ho sempre seguito e amato la letteratura russa, fin dai tempi del liceo classico, curiosità e conoscenza rafforzate durante la mia vita lavorativa moscovita, che mi aveva portato anche a raccontare storie dalla Russia in una sorta di diario su questo stesso giornale (Sochi e dintorni: focus sulla Russia). Non posso oggi non rimpiangere quei tempi dove la bellezza e la scoperta dominavano su qualsiasi altra logica. Ma la letteratura resta, con la sua forza prorompente, ad illuminare le menti e le coscienze e a tracciare una strada che pare perduta per sempre. Ma che, grazie a lei, si può sempre ritrovare. O almeno, una volta giunti al bivio, provare a scegliere il cammino che ci pare più giusto per noi e per tutti. Dicevo, eccoci allora a ricordare che già in passato l’uomo letterato-scrittore-ma anche uomo comune si è trovato con la faccia al muro; d’altronde, la storia si ripete.

Ho ritrovato un libricino quasi miracoloso e terribilmente attuale, Condannato all’immortalità: due scritti autobiografici e una piccola antologia di poesie di un mito vivente della poesia mondiale, il russo Evgenij Aleksandrovič Evtušenko. Non so, sinceramente, quanto questo poeta, romanziere, autore di pellicole cinematografiche e professore emerito di letteratura e cinematografia sia noto in Italia. Per chi non lo fosse ricordo solo qualche nota biografica. Nato nel 1933 in Siberia, nipote di nonni arrestati come “nemici del popolo” nel 1937, durante il terrore staliniano, Evtušenko fu espulso dalla scuola, nel 1948, per “disubbidienza”. I suoi primi versi furono pubblicati nel 1949, il suo primo libro nel 1952. Nel 1957 fu espulso dall’istituto di Letteratura per il suo “individualismo” e le sue poesie divennero la prima voce solitaria contro lo stalinismo. Nel 1960, fu il primo russo a varcare la cortina di ferro e a recitare i suoi versi in Occidente.

Nel 1961 pubblicò Babi Yar, i suoi versi contro l’antisemitismo che ispirarono al grande compositore russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič la sua Sinfonia n. 13.

Da allora Evtušenko ha visitato 94 Paesi e le sue opere sono state tradotte in 72 lingue. Ha scritto e diretto due opere cinematografiche: Giardino d’infanzia nel 1982 e, nel 1990, Il funerale di Stalin, con Vanessa Redgrave e Claus Maria Brandauer.
Ha fatto sentire la sua voce contro i processi dei dissidenti, i carri armati sovietici in Cecoslovacchia e, con il fisico nucleare Andrej Dmitrievič Sacharov, ha fondato la prima associazione russa antistalinista, Memorial. Ha prestato la sua opera, dal 1988 al 1991, nel primo parlamento russo liberamente eletto, dove si è battuto contro la censura e altre restrizioni. Quando però, nel 1994, è stato invitato dal presidente Eltsin a ricevere dalle sue mani l’alta decorazione russa Ordine dell’Amicizia tra i Popoli, Evtušenko l’ha rifiutata, non approvando la guerra in Cecenia. Nel 2004, per il suo lavoro letterario, Evtušenko è stato insignito di una delle più prestigiose medaglie della Russia, quella per le grandi realizzazioni per la Madrepatria. È morto a Tulsa il 1° aprile 2017.

Oggi abbiamo un motivo in più per ricordarlo, anzi due.

Il primo riguarda un evento legato a questa terribile guerra in Ucraina: settimane fa, il 1° marzo, per la precisione, missili russi hanno bombardato Babi Yar, nella periferia di Kiev, quel luogo di massacri compiuti dalle forze della Germania nazista durante la campagna contro l’Unione Sovietica nella Seconda guerra mondiale.

Memoriale massacro Babi Yar, 1941 (AP Photo/Efrem Lukatsky)

Particolarmente documentato e noto fra tali massacri, fu, infatti, quello compiuto tra il 29 e il 30 settembre 1941, in cui trovarono la morte oltre 33.000 ebrei di Kiev, secondo il dettagliato rapporto fatto da personalità e militari tedeschi Fu uno dei tre più grandi massacri della storia dell’Olocausto, superato solo dal massacro della Operazione Erntefest in Polonia, nel 1943, con più di 42.000 vittime e dal Massacro d’Odessa con più di 50.000 ebrei nel 1941. La Shoah denomina l’eccidio come “massacro della gola di Babi Yar”.

Oggi, ancora una volta, capiamo che l’orrore non ha fine e che l’essere umano sembra non avere alcuna memoria. Gli errori continuano, la sofferenza non si ferma, non arretra. Odio gratuito. Eccoci allora qui a riportare alla mente, grazie al ricordo di Maria, una cara amica e collega esperta di storia, letteratura e lingua russe, una famosa poesia del grande artista russo dedicata a quel terribile massacro, quello stesso terribile luogo di sofferenza indecente. Per tutte le vittime.

Non c’è un monumento

A Babi Yar

Il burrone ripido

È come una lapide

Ho paura

Oggi mi sento vecchio come

Il popolo ebreo

Ora mi sento ebreo

Qui vago nell’antico Egitto

Eccomi, sono in croce e muoio

E porto ancora il segno dei chiodi.

Ora sono Dreyfus

La canaglia borghese mi denuncia

e mi giudica

Sono dietro le sbarre

Mi circondano, mi perseguitano,

mi calunniano, mi schiaffeggiano

E le donne eleganti

Strillano e mi colpiscono

con i loro ombrellini.

Sono un ragazzo a Bielostok.

Il sangue è ovunque sul pavimento

I capobanda nella caverna

Diventano sempre più brutali.

Puzzano di vodka e di cipolle

Con un calcio mi buttano a terra

Non posso far nulla

E invano imploro i persecutori

Sghignazzano “Morte ai Giudei”

“Viva la Russia”

Un mercante di grano

picchia mia madre.

O mio popolo russo

So che in fondo al cuore

Tu sei internazionalista

Ma ci sono stati uomini che con le loro

mani sporche

Hanno abusato del tuo buon nome.

So che il mio paese è buono

Che infamia sentire gli antisemiti che

senza la minima vergogna

Si proclamano.

Sono Anna Frank

Delicata come un germoglio ad Aprile

Sono innamorato e

Non ho bisogno di parole

Ma soltanto che ci guardiamo negli occhi

Abbiamo così poco da sentire

e da vedere

Ci hanno tolto le foglie e il cielo

Ma possiamo fare ancora molto

Possiamo abbracciarci teneramente

Nella stanza buia.

“Arriva qualcuno”

“Non avere paura

Questi sono i suoni della primavera

La primavera sta arrivando

Vieni

Dammi le tue labbra, presto”

“Buttano giù la porta”

“No è il ghiaccio che si rompe”

A Babi Yar il fruscio dell’erba selvaggia

Gli alberi sembrano minacciosi

Come a voler giudicare

Qui tutto in silenzio urla

e scoprendomi la testa

Sento che i miei capelli ingrigiti

sono lentamente

E divento un lungo grido silenzioso qui

Sopra migliaia e migliaia di sepolti

Io sono ogni vecchio

Ucciso qui

Io sono ogni bambino

Ucciso qui

Nulla di me potrà mai dimenticarlo

Che l’“Internazionale” tuoni

Quando l’ultimo antisemita sulla terra

Sarà alla fine sepolto.

Non c’è sangue ebreo

Nel mio sangue

Ma sento l’odio disgustoso

Di tutti gli antisemiti

come se fossi stato un ebreo

Ed ecco perché sono un vero russo.

Il secondo motivo è legato a quel piccolo libro che citavo, Condannato all’immortalità, edito in Italia da Interlinea nel 2008.
Vi voglio semplicemente condividere una poesia e l’incipit di un saggio qui compresi.
I brividi, per l’attualità cui ci riportano. 

Voglia il Cielo

Voglia il Cielo che torni la vista ai ciechi

e si raddrizzino le schiene ai curvi.

Voglia il Cielo non farci attaccati al potere

né falsamente eroi

e farci essere ricchi, ma ladri no,

naturalmente se è possibile ciò.

Voglia il Cielo farci vecchie volpi,

che cadano in nessuna tagliola,

e non farci vittime, né boia,

mendicanti neppure, né signori.

Voglia il Cielo che siano poche le ferite,

nel caso di una grossa rissa,

e che tanti paesi possiamo avere,

senza però il proprio dover perdere.

Voglia il Cielo che la nostra terra

non ci prenda a pedate.

Voglia il Cielo che le mogli ci amino,

anche se scalcinati.

Voglia il Cielo che ai falsi si serri la bocca,

udendo voce divina in un grido infantile,

che Cristo ravvisiamo nei vivi,

sua in volto d’uomo, sia femminile.

Non la croce portiamo – l’empietà

e come miseramente ci curviamo.

Per non avere in tutto sfiducia piena,

voglia il Cielo Dio in noi, anche se appena.

Voglia il Cielo che tutti abbiamo tutto,

e subito, perché non ci sia offesa.

Tutto sì, ma solo ciò per cui

non dobbiamo vergognarci poi.

1990

 

La pace era appesa a un sottile capello

D’un tratto nella noia trasalirono

Palme e ornelli.

La pace era appesa a un sottile capello

Della calvizie di Nikita….

La crisi caraibica nel novembre 1962 consisteva non solo nel conflitto Urss e Usa, ma anche nel conflitto tra il giovane Fidel Castro, circondato da un’aureola romantica, e la politica sovietica – goffa e talvolta semplicemente scorretta. Veramente, nel caso della crisi caraibica, la scorrettezza era dettata dalla fretta, quando la pace era letteralmente appesa a un sottile capello. Allora pochi capivano che due personalità assolutamente bipolari, a rigor di logica, per primi avevano compreso che erano costretti dalla storia a farsi partner, per la salvezza del globo terrestre dalla possibile distruzione. Il primo era un contadino del villaggio di Kalinovsk, giunto al potere dalla miseria, dal terrore di ogni notte di fronte all’arresto, negli anni del terrore staliniano (…). Il secondo era figlio di un milionario americano (…).

Entrambi questi leader (…) davano a tutti i futuri presidenti un invitante esempio di ciò che sono quei momenti in cui la politica di per sé, con tutte le sue ambizioni e gli apparenti grandi obiettivi, appare insignificante se confrontata con il problema della salvezza della vita sulla Terra, per la cui causa vale la pena rinunciare a tutto il resto e accordarsi umanamente. Tenere presente questo è assolutamente vantaggioso, proprio adesso, perché nell’aria instabile, sempre trasalente per le esplosioni, si delineano una certa quantità di potenziali sottili capelli, ai quali è di nuovo possibile appendere il sunnominato mondo, e non è chiaro se saranno abbastanza resistenti, come quello semidimenticato-indimenticabile della pelata di Nikita Sergeevic, che, a volte, infervoratosi, diventava di porpora e evidenziava le protuberanze, ma che, pure rapidamente, rassicuratosi, livellava la sua superficie. Nel diretto conflitto Usa-Russia non credo. Per esso non esistono motivi logici diretti (…) Meglio non darsi delle arie, ma scambiarsi l’esperienza dei propri errori e non ripeterli. (…) .  

Non si devono trasformare gli altri Paesi in carte da gioco, cercando di vincere l’un l’altro. Questo gioco per la vittoria si trasforma in una reciproca sconfitta e vince qualche terzo, e non si conosce ancora se per il bene (…). Le grandi potenze nucleari (…) devono accettare le piccole nazioni e non contrastarle. Anche i problemi interni possono diventare sottili capelli, che non reggeranno il carico appeso loro2003-2005

Foto in evidenza di Evgenij Aleksandrovič Evtušenko