Bring On The Night (The Police, 1979)
Mangio per noia. Il grasso della pancia è un peso che accetto con filosofia.
Il tempo fugge, mi frega, s’allontana. Lo inseguo, goffo come sono, coi miei biscotti in bocca. Resto indietro come previsto, il tempo vince sempre. Lui corre, io mangio… non c’è partita.
Forse è la luce. Troppa luce mi disturba, mi distrae, m’acceca.
Resta il pensiero, lui è mio amico e gli chiedo aiuto. Alla fine siamo sempre io e lui a fare i conti col mondo. Quale mondo? L’altro mondo? La fine del mondo?
Il mondo fuori da queste mura e il mondo dentro la mia testa, i conti non tornano mai.
E il tempo? Il tempo corre, io rifletto e resto indietro.
Fuori la gente passa, vive, muore, m’ignora, non esiste…
Io non esisto per la gente ma non m’importa, nella mia testa c’è una gran folla che m’aspetta.
Ma questa luce mi danneggia, mi confonde, mescola i pensieri, li corrode, li dissolve.
Così aspetto. Il tempo passa e io aspetto… E finalmente arriva!
Arriva la sera, fresca e leggera. Mi culla e mi coccola un’ombra giovane e calma. Apro gli occhi lentamente, il mio dolce mondo di tenebre è qui!
Liberato, fuoriuscito, sconfinato. Fluttuante di pensiero, senza il peso del giorno.
Ora posso vivere come voglio, andare dove voglio, parlare con chi voglio. Almeno per un’altra notte ancora.
L’una di notte, seduto ad ascoltare una vecchia canzone. L’oscurità circostante espande l’orizzonte.
E il tempo? Il tempo s’è fermato ad ascoltare, anche lui come me. Per un istante, io e il tempo riusciamo anche a guardarci, a salutarci, rigorosamente al buio.
Poi l’istante, per incanto, diventa come eterno. E rivedo un ragazzo di quarant’anni fa canticchiare la mia stessa canzone. È a casa dei genitori in via Belletti al numero sei, in una taverna rustica con un caminetto acceso. Gli amici, gli amori, la scuola, le serate al campetto. Cuori selvaggi, ingenui, in sella ai motorini a far castelli di carta. Meravigliosi castelli di carta dissolti dal tempo.
Il tempo appunto. Me n’ero quasi dimenticato.
Il tempo non s’è mai fermato, anche se per un po’ ci avevo creduto.
Ho cantato quella canzone per tutta la notte, o forse per tutta la vita, non lo so, il tempo corre.
Tra poco tornerà la luce e un nuovo giorno per continuare a invecchiare.
Non rimane che aspettare la prossima notte per ascoltare un’altra vecchia canzone assieme a quel ragazzo di quella casa in via Belletti al numero sei.
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it