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Dal Parco della Chiusa all’ex-autogrill Cantagallo, Casalecchio sul Reno, 26-27 novembre (terza parte) by Wu Ming 1

3.SEGUE – Gli alberi caduti sono molti e chiudono i sentieri con fusti fradici, scivolosi. Tocca scavalcarli, scalarli, le suole troppo infangate per fare attrito, così cado, due, tre volte, e quando riprendo il cammino affondo fino alle caviglie. Sono costretta a piccole deviazioni per pulirmi le suole su rocce e sterpi. Alla mia destra scorre il Reno, possente, non lo vedo ma sento il rombo, di là dalla striscia di bosco della golena, oltre le barriere di ontani e salici e i grovigli di canneti.
Finalmente arrivo al ponte, passerella d’acciaio uguale a come l’ho lasciata. La infilo di buon passo e lì mi appare, il fiume, e mi commuove, azzurro come uno stereotipo ma diverso da ogni altra cosa, il fiume. Scende dall’Appennino e attraversa la grande pianura, percorso inverso al mio.
Dall’altra parte mi attendono le vecchie colline di ghiaia della Sapaba, oggi colline e basta, coperte di piante, verdi da ferire gli occhi. Me le lascio alle spalle camminando più svelta, una frenesia improvvisa mi muove le gambe, via il cappuccio, via la sciarpa, sono quasi a casa, a casa! Un tempo qui c’era un campo nomadi, ma oggi quasi tutta Italia è campo nomadi, e forse buona parte del mondo, ma io sono a casa. Giro verso destra, imbocco un ultimo sentiero ed eccolo. Il Cantagallo.

La mia famiglia mi accoglie festante. Manco da quaranta giorni, da quando decisi di scendere nei miei luoghi, tornare all’origine, far chiarezza nella mente e nel corpo. Da settimane registravo interferenze nelle visioni, provocate dalle ondate di calore, vampate che mi arrembavano da dentro. Le sentivo nel petto, le sentivo alla nuca. Arrivavo al rituale stanca, dopo nottate insonni, infastidita da pisciate urticanti e dall’attrito dei polpastrelli su mucose asciutte, innervosita da ogni cosa. A volte scoppiavo a piangere durante il racconto e contagiavo gli altri, tutto si inceppava. L’ingresso nella nuova età turbava la mia funzione, la menopausa mi obbligava ad affrontare il futuro spicciolo, a chiedermi che sarebbe stato di me e del mio posto nel mondo. Addio definitivo alla fertilità: un contraccolpo anche per me, infertile da sempre per capriccio dell’utero. Dovevo fermarmi, ritrarmi, ritrarmi e ripensare tutto, ricordare tutto, lontana da qui, innestata in un altro tempo. E scuotere il corpo, metterlo alla prova.
– Stasera celebriamo! Si mangia, si beve e si fa l’amore! – annuncia Nita. E’ bello rivederla. Quaranta giorni fa, nel salutarmi, la sua voce era rotta e disforica. Oggi squilla come i telefoni di quand’ero bimba. Nita ha venticinque anni, io ne sto per compiere cinquantadue. Siamo il vice e il versa. Mentre ero via, lo so, è stata lei a dirigere il rituale, a vedere, ad avviare il racconto. Ho fiducia, so che ha lavorato bene. Le ho insegnato
molto di quello che so.
Molto, sì, ma non tutto. Io stessa non so di sapere molte cose, dunque non sono in grado di insegnarle.
Io vedo, e molto di più non saprei dire.
Io sono la veggente del Cantagallo, la donna che guida questa famiglia, che vede e racconta i futuri remoti. Ho attraversato la mia crisi nella Crisi, e sono tornata dove sto meglio, per vivere con quelli che amo, invecchiare con quelli che amo, e un giorno morire con quelli che amo al mio fianco.
Eccoli, ridono, mi abbracciano e baciano. Gli abbracci di chi ha un solo arto mi inteneriscono, sono sghembi, ricordano la posa di un danzatore di sirtaki.
Eccoli, i miei piccoli, con le loro malattie, le loro forze, le loro speranze. Saluto Antioco, che ha la sindrome di Capgras. Se mi guardasse in volto non mi riconoscerebbe, gli apparirei come un’estranea che mi somiglia, manichino di carne con le mie fattezze. Per volermi bene, per volere bene a chiunque, deve chiudere gli occhi, perché la voce, quella, rimane vera. Abbassa le palpebre, mi ascolta e sorride.
Saluto Ileana, che ha la sindrome di Fregoli. Non mi guarda nemmeno, si muove con gli occhi umidi verso Nita, la abbraccia emozionata e la saluta… chiamandola col mio nome. Nita non la corregge, io nemmeno. Va bene anche così.
Saluto Ezio, che è quasi cieco ma non lo sa, si rifiuta di saperlo. Ha la sindrome di Anton. Mantiene lo sguardo spento puntato sul mio naso, forse il mio viso è solo una macchia pallida, e forse nemmeno quella, ma Ezio è felice di rivedermi e dice: “Hai un’espressione radiosa, il viaggio ti ha proprio fatto bene!” Saluto Demetra, Tiziano e Lizebet, che non soffrono di alcuna sindrome. Saluto Edo, Yassin, Pablo e Natzuko. Saluto i bimbi che mi si aggrappano alle gambe. Saluto i cani e le capre, saluto col pensiero ogni animale e ogni pianta nella nostra orbita, intorno a questo mondo di profughi splendenti, questa nazione messa insieme in un vecchio autogrill, a cavallo di un’autostrada sgombra, dove suscita meraviglia il raro passaggio di veicoli a motore. Quest’autogrill che può ancora funzionare come tale, perché diamo ristoro e riparo ai viandanti, perché viandanti lo siamo stati tutti, prima di arrivare qui da vicino o da lontano.
Reietti. Reietti che ogni mattina afferrano il futuro per la coda e fanno sci d’acqua sul presente, lieti di esserci, pronti ad affrontare il giorno, ad allevare e coltivare, insegnare ed educare, partire per esplorare, tornare per raccontare.

Notte fonda, la luna è un filo curvo e non c’è ombra di nubi. Guardo l’A1 dalla lunga vetrata che la sormonta. Ogni pietra, ogni lastra, ogni chiodo e vite del Cantagallo potrebbe narrare un milione di storie.
Qui, nel 1972, i dipendenti entrarono in sciopero improvviso e spontaneo, per non dover fare il pieno e servire il caffè a un politico di allora, Giorgio Almirante. Ne nacque una canzone popolare, forse una delle ultime, ancora la ricordo: “Arrivato che fu al Cantagallo / ha di fronte un bel ristorante / meno male, pensava Almirante: / cosi almeno potremo mangiar. / Tutti fermi, le braccia incrociate, / non si muove nessun cameriere. / Niente
pranzo per camicie nere, / a digiuno dovranno restar.”
Oggi sembra un mito dell’Età del Bronzo.
– Chi era Al Mirante? – mi ha chiesto Nita un pomeriggio d’estate.
– Era il capo dei fascisti.
– E chi erano i fašisti?
Qui, la notte di Capodanno del 2002, fu battuto il primo scontrino nella nuova valuta, l’euro. Ne scrissero i giornali. Il cittadino detentore del primato si chiamava Lorenzo. Il suo acquisto: una confezione di chewing-gum pieni d’aspartame.
Ricordi della Seconda Età del Cancro.
– Cos’era lo spartame? – mi ha chiesto Pablo una sera d’autunno.
– Una cosa dolce che faceva molto male alla salute, ma tutti la
mangiavano e bevevano.
– E perché, se faceva male?
Qui, nel 2006, un camionista gridò di avere indosso una cintura esplosiva e seminò il panico nel ristorante. Esigeva che la polizia gli sparasse, altrimenti avrebbe fatto saltare l’edificio. Desiderava essere ucciso. Il Cantagallo fu evacuato e le autorità chiusero il tratto di A1 da Casalecchio a Sasso Marconi. Fu il caos in mezza
Italia. Dopo un’ora di trattativa, la polizia convinse l’uomo ad arrendersi. Sotto il giaccone aveva un cuscino, il filo del detonatore era il caricabatteria del cellulare. Disse che aveva problemi lavorativi, era sfruttato e la sua famiglia stava andando in pezzi.

La mia invece no. Dopo la festa, c’è ancora musica suonata in qualche stanza. Qualcuno si aggira discutendo, altri ronfano, rassicurati, avvinghiati l’uno all’altro nei sacchi a pelo.
Salgo sul tetto, dove abbiamo costruito la specola. E’ una notte ideale per vedere gli astri. Notti così son meno rare di una volta, la Crisi ha reso tersa la volta celeste, non ti senti più sul fondo di un bicchiere d’orzata fluorescente.
Non tocco il telescopio. Si vede a occhio nudo l’ammasso delle Pleiadi, figlie di Atlante e Pleione.
Quando ti perdi tra acqua e terra, fissa il cielo notturno, frugalo in cerca di segreti. Lo spazio profondo sarà là per attirarti, supplizio di Tantalo fatto di vuoto.
Dopo, calerai di nuovo lo sguardo, rinfrancata, conscia del tuo baricentro.
Ho attraversato l’utero della terra, ho visto il rompersi delle acque e sono rinata.
Di nuovo al mondo, di nuovo al mio posto.
Per me.
E per gli altri.

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Racconto apparso nell’antologia “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile.” A cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma 2009.
© 2009 by Wu Ming 1, [vedi]

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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