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di Maria Paola Forlani

Primo-dialogo-Raffaello-e-Perugino-attorno-a-due-Sposalizi-della-Vergine
La locandina

La mostra “Primo dialogo, Raffaello e Perugino attorno a due Sposalizi della Vergine” dà il via a una nuova epoca per la Pinacoteca di Brera che, sotto la direzione di James Bradburne, mette fine alla pratica delle grandi mostre e inaugura una serie di appuntamenti volti alla valorizzazione della collezione permanente.
L’eccezionale prestito a Brera dello “Sposalizio della Vergine” di Perugino, proveniente dal Musée des Beaux-Art di Caen, e la sua collocazione accanto allo “Sposalizio della Vergine” del giovane Raffaello (capo d’opera della pinacoteca milanese) si presentano fino al 27 giugno 2016, per la prima volta nella storia, in un confronto unico.

Ai due capolavori è stata accostato poi un terzo Sposalizio della Vergine: quello dipinto da Jean-Baptiste Wicar nel 1825. Da quest’ultima versione nasce l’incipit narrativo di tante storie diverse: quella di un grande maestro (Perugino) e del suo talentuoso allievo (Raffaello), quella di un capolavoro sottratto alla sua patria e della fortuna in terra francese del suo autore, e infine quella del Santo Anello, che secondo la tradizione l’apostolo Giovanni avrebbe ricevuto dalla Vergine in persona, divenuto sacra reliquia fu l’oggetto per cui nei secoli si scatenarono agguerrite passioni municipali e nacquero grandi capolavori.

“Lo Sposalizio della Vergine” è la prima opera di Raffaello datata e firmata, della quale il pittore, poco più che ventenne, ha quindi pienamente riconosciuto la paternità. È anche la prima nella quale siano riconoscibili le derivazioni e, al tempo stesso, l’autonomia.
La composizione nasce da un’idea di Perugino: un gruppo di personaggi, divisi in due schiere, davanti a un vasto spiazzo chiuso sul fondo da un tempio a pianta centrale.
Il precedente peruginesco più noto è la “Consegna delle chiavi” della Cappella Sistina (1482). Ma i rapporti, più che con questo affresco – che Raffaello non poteva avere visto direttamente, non essendo ancora andato a Roma, ma poteva conoscere solo attraverso i disegni del maestro – devono essere stabiliti con lo “Sposalizio della Vergine”, che Pietro Vannucci, detto il Perugino, aveva dipinto poco prima: l’opera era stata commissionata dalla confraternita di San Giuseppe per la Cappella del Santo Anello nel Duomo di San Lorenzo a Perugia, perciò il giovane allievo e collaboratore doveva averla visto nascere giorno per giorno.
Le somiglianze sono indubbie, iniziando dalla forma della tavola, verticale e arcuata. In ambedue i casi il sacerdote, al centro, sostiene i polsi degli sposi mentre Giuseppe infila l’anello nel dito di Maria. Dal lato del primo sono gli uomini (uno dei quali spezza la bacchetta non fiorita), dall’altro le donne; tuttavia le posizioni degli uni e delle altre sono speculari. La piazza è pavimentata a scacchi, in modo da indicare, con esattezza geometrica, la prospettiva, secondo la tradizione fiorentina. Al tempio poligonale si sale mediante una scalinata e si accede da una porta, mentre, al di là, un’altra porta lascia vedere una porzione di cielo e di paesaggio.

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I due capolavori a confronto

In realtà però i due quadri sono profondamente diversi.
Raffaello interpreta e trasforma il modello creando una composizione non soltanto originale, ma molto più moderna di quella di Perugino, e soprattutto di maggior valore artistico, perché l’opera d’arte nasce non dalla scelta di un certo soggetto, ma dal modo in cui esso è reso a seconda della personalità dell’autore.
L’elemento determinante è il tempio, che Perugino immagina ottagono, con un prònao su quattro lati, del quale, senza ragione compositiva, taglia la cupola con il limite della tavola: un tempio massiccio, statico, che chiude lo spazio come un fondale scenico.
In Raffaello il tempio ha sedici lati, così da equipararsi quasi a una pianta circolare, ha una peristasi di archi sostenuti da colonne e la cupola, libera, riprende coerentemente la forma della cornice. Ha una certa somiglianza con il Tempietto di San Pietro in Montorio che il Bramante proprio in quegli anni sta elevando a Roma.
Anche senza accettare la tesi del Vasari per la quale esisterebbe una parentela (che non risulta da nessun documento), vi sono certo rapporti di amicizia fra il giovane Raffaello e l’anziano Bramante, ambedue urbinati; perciò Raffaello, anche senza aver visto direttamente l’edificio bramantesco a Roma, può averne conosciuto i progetti.
Da Bramante, Raffaello riprende l’idea cinquecentesca dell’edificio centrale intorno a cui ruota lo spazio.
Il tempio si alleggerisce innalzandosi sugli scalini e articolandosi perimetralmente con il porticato (entro il quale circola l’aria) raccordato al nucleo principale con eleganti volute.
La sua forma (coordinata per elementi salienti successivi, alla cupola), stagliandosi contro il cielo terso e trasparente, fa sì che lo sentiamo non come fondale, ma come centro di uno spazio che gli si estende egualmente intorno, di qua come di là e ai lati.
A ciò contribuisce in gran parte la pavimentazione della piazza, le cui linee prospettiche coincidono sul davanti con ciascuno spigolo della base poligonale formata dai gradini.
La convergenza ottica, dovuta alla prospettiva, fa sì che queste direttrici fondamentali sembrino non parallele fra loro, come sono nella realtà immaginata dal pittore, ma disposte a raggiera in concomitanza con i lati del tempio, che tanto più ne ricava centralità. Con questa impostazione sono coerenti anche le figure in primo piano, le quali facendo perno sul sacerdote si dispongono secondo due semicerchi, uno aperto verso lo spettatore, l’altro verso il tempio. Sono figure sciolte negli atteggiamenti, forse ancora un po’ leziose per la lieve inclinazione delle teste di origine peruginesca. Ma se ne riscattano se considerate nella complessa composizione, ossia inserite in uno spazio razionale, dominato dalla luce chiara, non immemore di Piero della Francesca, una luce che conferisce alla tavola un senso di serena meditazione sul fatto sacro.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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