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Tentare di dare un nome e una storia ad alcuni dei loro volti, per iniziare a considerare i migranti come persone con una dignità e dei diritti e non più come una categoria o, ancora peggio, un’emergenza che riguarda solo l’ordine pubblico. È questo il senso dell’iniziativa organizzata al Cinema Apollo sabato mattina, in occasione della Giornata internazionale dei Migranti, dal coordinamento di associazioni che ha dato vita a Ferrara che accoglie. Ospite d’onore: il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, intervistata dai ragazzi di Occhio ai Media e dagli studenti delle scuole superiori della provincia di Ferrara.
Il titolo dell’evento era “Oltre i muri dell’emergenza” e proprio da qui è partita Camusso: “fino a oggi abbiamo sempre parlato di immigrazione in termini di emergenza, cominciamo a parlare del tema del futuro. Non si può immaginare un futuro che non si confronti con i flussi migratori”, se non saranno – almeno si spera – le guerre a determinare i movimenti di popolazione, lo farà la demografia. Per il segretario “si può parlare ancora di emergenza solo nella misura in cui bisogna smettere di far morire le persone nel Mediterraneo”, per il resto dobbiamo rispondere a domande che riguardano “il mondo che dobbiamo disegnare” e per farlo serve “il coraggio della responsabilità”. Dobbiamo avere il coraggio di rispondere ad alcune domande: quali sono i principi in cui crediamo e che vogliamo affermare? In quale società desideriamo vivere? E, molto più pragmaticamente, “sono davvero queste persone a mettere in pericolo il nostro posto di lavoro, il nostro tenore di vita? Se non ci fossero i migranti la disoccupazione giovanile in Italia sarebbe allo 0%?”

La risposta di Camusso è un forte no: “il problema è che non si riesce a dare una risposta seria ai tanti disagi che attraversano la popolazione. La rottura però è avvenuta ancora prima: quando si è iniziato a dire che chi aveva più diritti era un privilegiato rispetto a chi è venuto dopo. Ora si sta facendo la stessa operazione con i migranti”. Per il segretario, insomma, alla base c’è l’incapacità di dare risposte serie alla complessità che stiamo vivendo e la soluzione trovata da chi vuole perpetuare questo modello di sviluppo e di crescita solo economica è la contrapposizione fra chi ne rimane escluso: prima erano i figli contro i padri, colpevoli di avere più tutele, ora sono gli italiani contro gli stranieri, colpevoli di sottrarre il poco lavoro che c’è.
Per fermare chi cavalca e fomenta le paure, strumentalizzandole politicamente, bisogna capire perché queste paure ci sono e parlare con chi ha paura per dirgli che “se non si accede alla sanità, ai servizi, se si fa fatica ad arrivare alla fine del mese, se diminuiscono le tutele e i diritti sul lavoro” sentirsi minacciati è comprensibile, ma “forse il tema è che abbiamo sbagliato a immaginare che le politiche sociali potessero essere progressivamente ridotte, che il mercato ci avrebbe fatto vivere tutti meglio e in perenne crescita. Il mercato fa un’altra cosa: arricchisce pochi e impoverisce i più”. Il nemico non sono i migranti, ma chi “ha pensato che si potesse continuare a ragionare in termini di riduzione dei costi, invece che giocare la sfida della qualità del lavoro”. “Non si può immaginare che se qualcun altro sta peggio di me, le mie condizioni di vita migliorino”, come “non si può introdurre una gerarchia dei bisogni sulle persone”. La soluzione, secondo Susanna Camusso, è “stare nelle scuole e nei luoghi di lavoro insieme, vivere lo stesso spazio e lo stesso tempo” sotto parole che si chiamano dignità , libertà, pace e lavoro, perché futuro e migliori condizioni di vita si conquistano e si sono sempre conquistati lottando con gli altri non contro gli altri.

Alcuni, neanche troppo tempo fa, l’avrebbero chiamata una rivendicazione di una nuova coscienza di classe da parte degli sfruttati, anche se in modi diversi, di coloro che sono lasciati indietro dalla ‘fiumana del progresso’. Quando però lo abbiamo chiesto al segretario, a lei l’espressione non è piaciuta, ha preferito chiamarla: “una nuova coscienza di giustizia, una coscienza che le diseguaglianze contrappongono gli ultimi con i penultimi, determinando sempre nuovi ultimi, mentre ricostruire uguaglianza permette di immaginare un percorso di crescita, libertà, benessere”.
E sulle priorità del nuovo governo Gentiloni riguardo a lavoro e immigrazione, Susanna Camusso afferma: “bisognerebbe cambiare le politiche fatte finora, politiche di sottrazione di diritti e di assenza di investimenti. Ciò di cui abbiamo bisogno è che si crei lavoro e si indichi quali sono le direzioni nelle quali si crea, non delegando solo al sistema delle imprese quali caratteristiche ha lo sviluppo. Bisogna affrontare il tema dell’interdizione di questo porcesso di impoverimento dei salari e dei diritti. La prima condizione è smettere di creare precarietà e porsi l’obiettivo di creare buon lavoro e lavoro di qualità”.

Foto di Patrizio Campi e Valerio Pazzi [clicca sulle immagini per ingrandirle]

Durante la mattinata sul palco, oltre al segretario generale Camusso, si sono avvicendati altri ospiti. Un commosso sindaco Tiziano Tagliani ha ricordato la notte tra il 24 e il 25 ottobre e le barricate a Gorino, “erano un po’ di anni che non piangevo”: “è una serata che non dimenticherò facilmente”. “Erano le 10 di sera, stavo guardando la televisione e mi hanno chiamato per dirmi che le dodici ragazze erano alla stazione dei Carabinieri di Comacchio perché nessuno le voleva. Mi è salita una rabbia tale che ho chiesto a mia moglie di accompagnarmi, perché non sapevo cosa avrei detto. Quando sono arrivato ho trovato in una stanza dodici persone mute e rassegnate”. Secondo Tagliani quello che abbiamo di fronte “è un problema di cultura: qualcuno continua a sentirsi fuori, a vedere le cose come se fossero lontane, in tv”. “Abbiamo vissuto l’immigrazione come un’emergenza, ma non è più così: è un processo internazionale: occorre ripensarla da tutti i punti di vista”. Infine il sindaco di Ferrara e presidente della Provincia ha ribadito la sua posizione sulla nuova intesa fra Anci e Stato e in particolare sull’incentivo economico per l’accoglienza: “non bisogna dare più soldi ai Comuni che accolgono, perché il rischio è che dicano che facciamo accoglienza solo per i soldi, bisogna togliere risorse a chi non lo fa” perché questo rifiuto, “per di più fatto con la fascia tricolore addosso”, “non è una forma di disobbedienza civile”.
Poi ci sono state le testimonianze della fotoreporter Annalisa Vandelli e di Grazia Naletto, presidente dell’associazione Lunaria. La prima ha raccontato i campi profughi di Giordania e Libano, persone di ogni età con i segni della guerra sul corpo e negli occhi che vorrebbero solo “tornare alla loro vita normale”, mentre la seconda ha evidenziato i problemi della mancanza, in Italia e in Europa, di “un sistema d’accoglienza ordinario predisposto per far fronte alla domanda di chi arriva”. E poi Andrea Morniroli, operatore sociale, che ha paragonato le migrazioni ai movimenti tellurici che scuotono il territorio e creano faglie: “una parte della politica cavalca la paura, mentre un’altra parte non ha il coraggio di affrontare questa complessità. Il compito di amministratori, operatori sociali, sindacalisti è stare in quelle faglie e costruire ponti per attraversarle, costruire mediazioni per superare le differenze e trovare i punti comuni”.
L’avvocato della Cgil Andrea Ronchi ha risposto alle domande su caporalato, migrazione e illegalità, “lavoro povero”. Se un lavoratore straniero è costretto ad accettare la tratta, il caporalato e un salario del 25% inferiore rispetto a un collega italiano, a parità di lavoro, perché altrimenti non riuscirà a presentare la documentazione per rinnovare il permesso di soggiorno, prima o poi questa competizione al ribasso si rifletterà sulle condizioni e sui diritti di tutti i lavoratori. In effetti sta già accadendo, da diverso tempo. Ma il nemico non sono i migranti, al contrario: difendere condizioni di lavoro dignitose e diritti per tutti, italiani e stranieri, non è una questione altruistica, ma la base per costruire una società basata sul valore del lavoro e dei lavoratori, non del consumo e del profitto.
E poi Zafer, un ragazzo rifugiato afghano, arrivato in Italia a solo a sedici anni, ha raccontato la propria storia: dal Pakistan dove era scappato con la madre e i fratelli, è passato in Iran, poi in Turchia e in Grecia, da qui “trenta ore aggrappato sotto un camion senza bere, mangiare e dormire, al freddo e al buio, con la puzza di gasolio e la paura di cadere e venire schiacciato dalle ruote” per arrivare in Italia. La polizia l’ha trovato ad Altedo e ha iniziato il difficile percorso di integrazione: la scuola per imparare l’italiano e poter lavorare e i mille lavoretti saltuari, in nero si intende. Poi ha trovato lavoro in un supermercato a Imola, ma quando sembrava che le cose avessero iniziato a ingranare è arrivata la notizia che sua madre si era ammalata gravemente: l’aveva lasciata in Pakistan con i fratelli, perché non c’era abbastanza da mangiare per tutti e lui è il fratello più grande. Il suo datore di lavoro gli ha concesso tre settimane per andare a trovarla: “quando sono tornato, il cuore colmo di angoscia per mia madre, il mio posto non c’era più, l’avevano dato a qualcun altro”. “Ora sono senza lavoro, ma spero un giorno di poter realizzare il mio sogno e tornare in Pakistan con la mia famiglia”.

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Federica Pezzoli


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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