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di Jacopo Aneghini

Enrico Cipollini è uno di quei musicisti che di certo non ha bisogno di presentazioni. Tra i migliori artisti della scena musicale ferrarese e italiana è già noto per i suoi precedenti lavori sia con il suo power trio Underground Railroad dove mischiava, con l’aiuto di altri due fenomenali musicisti, quel sound hard blues degli anni ‘70 con il southern e tutto ciò che ci ruota attorno, che con la band di Iarin Munari Free Jam, esibendosi, tra le numerose date, con entrambe le band al Pistoia Blues Festival. Se già un paio di anni fa aveva stupito con l’EP Songs From The Shelter, a metà del 2016 pubblica il suo primo disco solista: Stubborn Will. E proprio in questo suo nuovo progetto mi sono buttato a capofitto fin dagli inizi, seguendolo costantemente dal vivo ed in studio di registrazione, realizzando le fotografie che accompagnano il disco.

la copertina del disco
stubborn-will1

L’album è a dir poco magistrale. Un disco maturo, ben realizzato in ogni aspetto. Ascoltandolo è come percorrere un viaggio tra la musica e la cultura musicale statunitense, ripercorrendo la sua storia e facendo tesoro di tutto il meglio che essa può offrire. Si parte dalle acque fangose del Mississippi di Do What You Can, uno dei brani più azzeccati dell’album, un blues suonato con la sua Dobro lap steel veramente impeccabile. Da lì poi si sale sul treno di Late Night Train (qui a dimostrazione della perfetta conoscenza della cultura di quella parte della black music che spesso si identifica come “race records”, dove la metafora del treno è molto ricorrente, basti pensare a “This Train Is Bound For Glory” della Tharpe e a “People Get Ready” degli Impressions) e si viaggi attraverso gli States, passando per il Nebraska di Springsteen e arrivando nella West Coast di Jackson Browne portandosi dietro, un po’ come il frutto di ciò che il viaggio ci ha lasciato, quelle ballate strumentali sempre al confine tra folk, country e blues songs e quella marcia in più che solo da Dylan si può imparare. Ecco, questo secondo me si può percepire dal disco, un concentrato di tutto quello che i grandi maestri possono insegnare con la loro musica e le loro parole. Il tutto impreziosito da alcuni dei migliori musicisti ferraresi e italiani, come Iarin Munari alla batteria, Roberto Catani (aka Fusco) al basso, Andrea Franchi al violoncello, Chiara Giacobbe al violino e ai cori. Il tutto sapientemente catturato da Angelo Paracchini e dallo staff dell’Over Studio di Cento (FE), che ancora una volta si conferma uno dei migliori studi di registrazione italiani. Tanti i brani degni di nota, You Think You Do è una di quelle ballate struggenti in cui volenti o nolenti ci si rispecchia, e dalle quali ci si lascia volentieri avvolgere dalla loro malinconia. La triade Nobody, Found ed Evelyne ti spinge ad ascoltarle tutte d’un fiato e a farle ricominciare daccapo in loop. Choirs, la traccia d’apertura, è uno di quei brani strumentali che passa tutto d’un fiato senza nemmeno accorgersene, e ti sembra un po’ come la parte seconda di Little Martha, come a completare quel capolavoro di Duane che spesso, e per fortuna, si riesce a sentire in Enrico. Where The Band Plays è uno di quei brani, invece, che ti sembra di conoscere da sempre, non per la sua banalità, ma per la sua semplicità. È un brano semplice, diretto, vero. Che non si nasconde dietro fronzoli, virtuosismi, suoni strani o chissà che altro. È tutto lì. E nemmeno ti chiedi che altro ti serve o ti manca, perché non ce n’è bisogno. Le sue dita poi si spostano sul pianoforte in A Dream And A Girl, per concludere il disco. Un brano che a parer mio è a metà tra gli Eagles e quell’Elton John degli esordi, dove si esibiva in trio ed era una bomba a mano. E il tutto sapevi che si andava a concludere con un brano così, lo sai, ma non perché te lo immagini, bensì perché ci speri. Di una empatia incredibile, brani che ti entrano dentro e non se vanno più, e ad oggi pochi artisti scrivono musica così ben fatta, così…bella! Stubborn Will è un tranello: ti avvolge con la sua semplicità e ti trattiene con la sua malinconia, da cui non riesci a liberarti, semplicemente perché non vuoi. E alla fine, quando il disco smette di girare, ti lascia addosso niente di meno che la sua bellezza.

Seguite Enrico nelle sue numerose serate, e a fine concerto acquistate il disco e scambiate due parole con lui, sicuramente tornerete a casa arricchiti di ciò che solo un grande musicista ma soprattutto una grande persona vi può trasmettere.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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