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da: ufficio stampa SBArcheo

Una distesa di coni, crateri e vulcani in miniatura, un placido ribollire di fango che, colando, si solidifica in un grande manto grinzoso, immagine allarmante di un fenomeno nel complesso innocuo.
È lecito supporre che la vista delle “Salse” abbia suscitato timore da tempo immemorabile. Ma l’effetto benefico di argilla, fanghi, bitume, acqua salmastra e gas deve aver presto prevalso sulla visione apocalittica, legando questo evento naturale ai culti religiosi connessi alle acque salutari e al mondo sotterraneo, primo fra tutti quello incentrato sulla dea Minerva.
Gli scavi archeologici condotti a partire dal 2006 a Montegibbio, sulle prime colline di Sassuolo, nel Modenese, hanno portato in luce un santuario dedicato a Minerva in prossimità dell’omonima salsa, il maggiore vulcano di fango d’Italia, quiescente da quasi due secoli.
La mostra “Minerva Medica”, curata da Francesca Guandalini e Donato Labate e allestita alla Galleria Paggeriarte di Sassuolo, illustra questi scavi, descrivendo il culto della dea attraverso i reperti recuperati e proponendo una ricostruzione tridimensionale del santuario definitivamente abbandonato dopo due eventi catastrofici.
In area padana, i Romani concentrano in Minerva le divinità femminili di origine celtica legate alle acque e ai culti di sanatio: oltre a invocarla come dea Sanctissima ed Augusta, i devoti la ricordano come Minerva Memor e Medica.
Memor perché memore delle preghiere dei fedeli, Medica perché li cura con i benefici influssi delle acque, dei fanghi e delle polle di petrolio che le sono consacrati.
A Montegibbio il nome della dea appare inciso sul vasellame deposto dai fedeli, in un caso integralmente come dedica -[Eg]o Miner(vae) sum, “io sono dedicata a Minerva”-, più spesso solo con la M iniziale o la doppia MM di Minerva Medica o Memor. Gli oggetti rinvenuti negli scavi, spesso modesti e di uso comune, testimoniano una frequentazione del sito già nell’età del Rame e in epoca celtica. Il sito si struttura poi come santuario in epoca romana a partire dal II sec. a.C., restando in uso fino agli inizi del II sec. d.C. Risalgono a questo periodo bicchieri, coppe, brocche e bacili utilizzati per banchetti o abluzioni rituali, numerose monete, lucerne, stili e aghi in osso e bronzo, pesi da telaio e altri oggetti che rimandano a una delle caratteristiche divine di Minerva, quella di protettrice delle arti, tra cui la tessitura e la cucitura di pelli e tessuti.
La presenza dei paleo-vulcani di fango noti come “salse” dà vita in età antica al culto incentrato sulla dea Minerva connesso non solo alle proprietà curative di acque, fanghi e bitume ma anche ad una sorta di pratica oracolare in cui l’attività eruttiva viene vista come un contatto tra il mondo degli umani e quello sotterraneo.
L’eccezionalità del sito di Montegibbio risiede peraltro non solo nel carattere cultuale dell’insediamento ma nella possibilità di leggere una serie di fenomeni catastrofici legati al vulcanesimo di fango.
Il primo santuario costruito dai Romani sulla “salsa di Minerva” in età repubblicana (II sec. a.C.) è infatti distrutto dopo pochi decenni da una catastrofe naturale, forse un terremoto.
Alla metà del I sec. a. C. il tempio viene non solo ripristinato ma ampliato e strutturato in più ambienti. Lo spazio sacro è organizzato in una serie di stanze con pavimenti a cocciopesto con tessere musive (opus signinum) disposte intorno a un cortile interno. La “salsa di Minerva”, prima delimitata da un recinto, viene ora raggiunta tramite una scala, posta a valle del santuario.
I continui dissesti geologi accaduti a Montegibbio non consentono di ricostruire l’intera pianta del santuario: sappiamo però che le pareti erano rivestite da affreschi policromi di pregio realizzati con tecniche sofisticate da maestranze di grande abilità e che al santuario era associata una fornace usata sia per la cottura dei laterizi da costruzione che per produrre vasellame e statuette fittili deposti dai fedeli come offerta votiva.
Agli inizi del II sec. d.C. una seconda catastrofe naturale distrugge le strutture sacre di Montegibbio e, dopo un periodo di abbandono del sito, nel III sec. d.C. viene costruita una casa colonica dotata di un pozzo che attinge acqua nello stesso punto in cui prima si venerava la “salsa di Minerva”. Anche questo rustico viene distrutto da un altro evento catastrofico nel corso del VI sec. d.C.

La mostra è promossa, nell’ambito del festivalfilosofia®ereditare, da Comune di Sassuolo, Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali e Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università degli Studi di Bologna e Laboratorio di Palinologia e Paleobotanica dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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