Skip to main content

Presto di mattina. Pasqua di viandanti

Pasqua di Cristo, Pasqua del viandante

Cristo è l’uomo che cammina, così lo scrittore Christian Bobin nel suo piccolo libro chiama il profeta di Nazareth. Non si allude solo al suo andare senza sosta, sempre verso qualcuno per ascoltare ed essere ascoltato. Anche la sua parola è come lui: divenuta vangelo buona notizia, gli cammina un passo avanti, e come le acque torrentizie in un wadi dopo le piogge di primavera fanno fiorire il deserto, esse oltrepassano la morte stessa portando vita.

Bobin paragona così la via del Cristo al cammino tortuoso di una falda d’acqua sotterranea che si fa strada; un procedere incerto faticoso ma inarrestabile, fino a sgorgare fuori alla luce con un getto travolgente che ribalta l’ultima pietra: «Non sembra seguire un percorso a lui noto. Potremmo addirittura parlare di esitazioni. Cerca semplicemente qualcuno che lo ascolti. È una ricerca quasi sempre delusa, il suo cammino è quello delle delusioni, da un villaggio all’altro, da una sordità alla seguente.»

Come la falda d’acqua in cerca di una via d’uscita: scava, gira, ritorna, riparte, fino al colpo di genio risolutore: il getto impetuoso che sgorga in un pieno respiro polverizzando l’ultima diga…

«Pochissimi riescono a tenere il suo passo. Una manciata di uomini e alcune donne. …Verso la fine, annuncia che “là dove va” nessuno potrà seguirlo e che non si tratta di un abbandono, perché “là dove va” avrà la stessa costante benevolenza per ciascuno… Non fa dell’indifferenza una virtù. Un giorno grida, un altro piange. Percorre l’intero registro dell’umano, l’ampia gamma emotiva, così radicalmente uomo da raggiungere dio attraverso le radici.

«Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là, se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine» (L’uomo che cammina, Qiqajon, Magnano [BI] 1998, 9; 11; 18).

Un volto che cammina

«Il suo volto era andante verso Gerusalemme»: questo ebraismo conservato nel vangelo di Luca 9,56 dice mirabilmente una delle caratteristiche fondamentali del Gesù storico insieme alla pratica della convivialità e a quella taumaturgica.

Il Gesù narrato nei vangeli è sempre in movimento: “in cammino”, un camminare verso Gerusalemme, ma lo stesso verbo descrive pure il suo andare verso la croce per entrare nella morte. Con la sua parola itinerante, egli dischiude alle persone il cammino stesso della fede.

Dopo ogni riconoscimento del credere, dopo ogni guarigione scaturita dalla fede, dopo ogni sua parola accolta egli comanda: “Alzati e va’ la tua fede ti ha salvato”; “Va’ in pace la tua fede ti ha salvata”; Va’ e anche tu fa lo stesso”; “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!”. Va’, andate, caratterizza anche il cammino dei dodici apostoli prima e dopo la Pasqua.

In Giovanni poi, nei discorsi di commiato, Gesù parla spesso ai discepoli del suo andare al Padre. Venuto da lui egli ritorna al Padre, così il suo salire a Gerusalemme ha come prospettiva e meta quella di andare e salire al Padre per poi ripresentarsi di nuovo nello Spirito consolatore che accompagna i discepoli in cammino. «Non mi trattenere – dice a Maria di Magdala il mattino di Pasqua – ma va dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.” (Gv 20, 17)

La Pasqua stessa dunque è “passaggio”, luogo di transito per un oltre. Transiliens, scrive Agostino ricordando colui che “oltrepassa tutto per non desiderare altro che Dio con tutto se stesso”. Viandante tra i suoi fratelli, li precede anche ora nel cammino della storia come fu viandante in Palestina tra la gente: «Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme» (Lc 13, 22).

«Uno scriba si avvicinò e gli disse: “Maestro, ti seguirò dovunque tu vada”. Gli rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”» (Mt 19, 20); «Egli disse loro: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città”. E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea» (Lc 4, 43-44); «“Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”. E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni» (Mc 1, 36-38).

Pasqua di Cristo, Pasqua di un forestiero in transito

«Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus… Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Egli domanda loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Uno di loro con la tristezza sul volto rispose: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”» (Lc 24, 13-18).

La prossimità del forestiero e le sue domande procurano un effetto di straniamento nei discepoli. È questo l’effetto di sconvolgimento della percezione che si ha della realtà quando si incontra uno sconosciuto. Un mutamento di prospettiva operato con l’intento di farne emergere aspetti nuovi, inattesi. Una conversione dello sguardo, tale da indurlo a una prospettiva altra.

È questo che produce l’incontro del forestiero: un guardare non più con i propri occhi, ma con quelli dello straniero incrociato sulla via di Emmaus. E si passa, passo dopo passo, dall’estraneità al riconoscimento, dalla tristezza alla gioia. È anche oggi il Risorto nascosto, e forestiero, che si immedesima con noi, perché noi ci immedesimiamo con lui strada facendo, per incontrarlo ancora nel forestiero, come un fratello.

Il cammino educa a straniarsi, allontanarsi da sé; porta fuori di se stessi. È il dono di riguardare e ricomprendere se stessi e il proprio mondo dalla parte di chi ci cammina accanto. Scrive Claudio Magris ne L’infinito viaggiare:

«Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri è forse l’unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio sono gli uomini» (Mondadori, Milano 2014, xx).

A tutti i cercatori del tuo volto
mostrati, Signore;
a tutti i pellegrini dell’assoluto,
vieni incontro, Signore;
con quanti si mettono in cammino
e non sanno dove andare
cammina, Signore;
affiancati e cammina con tutti i disperati
sulle strade di Emmaus;
e non offenderti se essi non sanno
che sei tu ad andare con loro,
tu che li rendi inquieti
e incendi i loro cuori;
non sanno che ti portano dentro:
con loro fermati poiché si fa sera
e la notte è buia e lunga, Signore.
(David Maria Turoldo)

Pasqua di discepoli, Pasqua di viandanti

Se ci si sofferma anche solo a considerare i diversi verbi delle narrazioni pasquali dei vangeli, ci si accorge che è tutto un continuo via vai. Verbi di moto a luogo e da luogo, andare, venire, giungere, ripartire, entrare uscire; perfino un correre avanti e indietro dal sepolcro di Maria di Magdala, di Pietro e Giovanni.

Spaesamento è il mattino di Pasqua. Sono venuti meno i criteri e l’orizzonte di senso del vivere dei discepoli della loro stessa fede. Per tutta la loro itineranza alla sequela di Gesù è detto che non avevano compreso le sue parole e «cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9, 10; Gv 20, 9).

Quel mattino presto ritornano viandanti che cercano, passando dalla paura alla gioia, dalla gioia all’incredulità: «per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore» (Lc 24, 41). Hanno bisogno di una nuova narrazione, di una nuova luce e parola, di un senso altro che può venire solo da altrove:

«[Le donne] videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea” (Mc 16, 4-7).

Viandanti sorpresi da un’alba nuova di un’altra luce, cercando l’impossibile: un virgulto in terra arida, un sorriso spuntato dal dolore, qualcuno nato dalla morte:

Ancora un’alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
ancora qualcuno è nato:
con occhi e mani,
e sorride.
(Turoldo, Il grande male, Mondadori, Milano (1995, 11).

Discepoli della via (At 9,2; 19, 23; 24, 14 e 22): viandanti per farsi prossimi

Mentre il sole è già volge al declino
sei ancora il Viandante che spiega le scritture
e ci dona il ristoro con il pane spezzato in silenzio
cuore e mente illumina ancora
perché vedano sempre il tuo volto
e comprendano con il tuo amore
ci raggiunge e ci spinge più al largo.
(David Maria Turoldo)

Scrive Umberto Galimberti: «Il viandante, come l’homo viator di Gabriel Marcel, vuole restituire all’uomo il suo “peso ontologico”, quel di più di essere custodito nelle sue profondità più nascoste che lo spingono a un oltrepassamento dal reale al possibile, consentendogli di sperimentare così la trascendenza nell’immanenza, come Abramo che si incammina verso una terra che il Signore gli avrebbe indicato; come i pellegrini medioevali che, avendo in vista una meta, non esitano a dire addio a ogni tappa raggiunta; come i pastori che senza meta accompagnano i loro armenti; come i profughi di ogni guerra e i migranti dei nostri giorni che camminano ininterrottamente sospinti dal desiderio e dalla speranza che per loro si apra il futuro» (L’etica del viandante, Feltrinelli, Milano 2023, 56).

E citando un testo di Enzo Bianchi sulla parabola del Samaritano, Galimberti scrive: «Il viandante non incontra il prossimo, ma si fa prossimo. “La vera domanda non è “Chi è il mio prossimo?”, ma ‘Chi si è fatto prossimo?’. Perché prossimo non si nasce, ma si diventa, con una scelta, una decisione. Nessuno è prossimo ma ognuno può diventarlo. La prossimità non è già data ma va costruita mediante il movimento di farti vicino e le azioni che ne conseguono”. Apprendiamo così che il prossimo non è definito da una condizione o da un’appartenenza, ma dalla nostra decisione di “renderci prossimi” all’altro, perché noi e l’altro abbiamo in comune quell’elemento essenziale che è l’appartenenza alla stessa umanità» (ivi, 368-369).

Viandante e via

«Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque e le tue orme rimasero invisibili» (Sal 77),

«“Vado a prepararvi un posto. Ritornerò e vi prenderò con me. E del luogo dove io vado, conoscete la via”. Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?” Gli disse Gesù: “Io sono la via” (Gv 14, 3-5).

È proprio quando non si conosce la via che cresce l’attenzione e l’interesse, si è attratti oltre, perché è proprio verso ciò che è ignoto, camminando nel mistero, che questi si rivela e si fa conoscere. Così non sono solo i viandanti che vanno incontro alle strade, ma è la strada che va incontro ai viandanti.

Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
Andando si fa il cammino,
e nel rivolger lo sguardo
ecco il sentiero che mai
si tornerà a rifare.
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare.
(Antonio Machado).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

tag:

Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it