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Polizia, carcere e giustizia riparativa

Mentre i dati record sui suicidi nelle carceri italiane nel 2022, l’anno più nero di sempre, hanno riacceso le luci di emergenza sul mondo della popolazione detenuta e sulle problematiche del sistema penitenziario, la vicenda Cospito e l’arresto di Mattia Messina Denaro hanno nuovamente posto il tema della giustizia al centro dell’attenzione mediatica e dell’opinione pubblica.

L’attuazione della riforma del sistema penale e penitenziario avviata dalla ex Ministra della Giustizia Marta Cartabia e gli obblighi imposti dall’Europa per il PNRR dovranno accelerare i tempi di attuazione e velocizzare i percorsi di adeguamento giuridico-penale per rimuovere uno dei principali ostacoli al rilancio del nostro Paese.

Il termine “brutalità della polizia” non è nuovo e continua ad essere usato in riferimento alle violazioni dei diritti umani da parte delle forze dell’ordine o all’uso indiscriminato della forza da parte di agenti antisommossa durante le manifestazioni di protesta.

Secondo i dati raccolti da Mapping Police Violence un’organizzazione che raccoglie e analizza i dati sulla violenza della polizia – nel 2022 si è registrata una media di tre uccisioni al giorno, 1.174 in totale, e sono stati solo 10 i giorni dell’anno in cui la polizia statunitense non abbia ucciso qualcuno.

La maggior parte di questo genere di omicidi da parte della polizia sono scaturiti da singoli controlli e fermi stradali, disordini pubblici, procedure di controllo sulla salute mentale, reati non violenti legati alle tossicodipendenze o senza alcun giustificabile ricorso alla legittima difesa.

La polizia negli Stati Uniti commette violazioni dei diritti umani a un ritmo incredibilmente frequente in particolare contro le minoranze razziali ed etniche e in particolare contro le comunità nere, che oltre che risultare ingiustificate, quasi mai vengono punite: il 98,3% degli omicidi dal 2013 al 2020 non ha portato a un’accusa di reato e a nessuna condanna per gli agenti coinvolti.

“Defund the police” è lo slogan che più sta incarnando l’idea che non è possibile riformare la polizia, meglio ridurne i finanziamenti e gli ambiti di intervento per sostituirla con soluzioni pubbliche non repressive. Molte delle argomentazioni sul “de-finanziamento”, infatti, non si concentrano sulla polizia stessa, ma sulle problematiche sociali che incoraggiano la criminalità, idea che negli USA e nel resto del mondo sempre più persone stanno capendo e accettando: la strada da percorrere è ridurre gli apparati di polizia e sostituirli con alternative civili, disarmate, finanziate e gestite con fondi e da organismi pubblici.

La mentalità guerriera di una polizia sempre più militarizzata non aiuta nessuno, e così, man mano che la voce di bilancio più importante delle città è il budget per la sicurezza pubblica, aumenta anche l’evidenza del fallimento delle forze dell’ordine nel soddisfare le esigenze delle comunità e la polizia è divenuta il volto pubblico del fallimento dello stato nel provvedere ai bisogni fondamentali delle persone.

Le attività di polizia stanno continuando a riguardare il mantenimento di un sistema di proprietà privata e a facilitare regimi di sfruttamento basati sul colonialismo, sulla schiavitù e sull’industrializzazione iniziato dalla fine del diciottesimo secolo e ancor prima in Inghilterra e negli Stai Uniti dal 1825 al 1855.
La polizia è sempre stata una risposta alla folla, non al crimine, non si è mai curata di produrre uguaglianza e ha sempre svolto un ruolo politico: reprimere le rivolte coloniali, reprimere le rivolte degli schiavi, reprimere la classe operaia e le lotte dei lavoratori.

Questo riassume la duplice funzione che contraddistingue la polizia moderna: da un lato c’è la forma diffusa di sorveglianza e di intimidazione che passa sotto il nome di lotta alla criminalità, dall’altro c’è la forma concentrata che assume per affrontare scioperi, rivolte, contestazioni e manifestazioni.

Questi sono i veri obiettivi di politiche come la tolleranza zero o di ordinamenti giuridici/penali basati sulla legge del taglione: intimidire e affermare il controllo sopra una massa di persone agendo solo su alcuni per controllare l’intera massa.

Oggi abbiamo agenti di polizia che assomigliano sempre di più ai militari e militari che assomigliano sempre di più a una polizia politica ovunque, anche e soprattutto in Italia, uno dei cinque Paesi dell’Unione Europea -su ventisette- a non aver ancora introdotto una legge sui codici identificativi per le forze di polizia impegnate in operazioni di ordine pubblico https://www.amnesty.it/appelli/inserire-subito-i-codici-identificativi/.

L’addestramento in stile guerriero, l’aumento del numero di corpi speciali, di unità paramilitari, la privatizzazione e il modo in cui questi fattori hanno plasmato il funzionamento degli apparati di sicurezza, secondo quanto espresso da Jeff Halper professore di Antropologia e coordinatore dell’Israeli Committee Against House Demolitions, deriverebbe innanzitutto dal fatto che migliaia di poliziotti americani vengono addestrati da specialisti israeliani. (“La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e la pacificazione globale” Edizioni Epoke’, Pluto Press 2015).

L’esperienza israeliana nel reprimere brutalmente per decenni l’intero popolo palestinese, è diventata una merce di scambio che la guerra globale al terrore ha reso estremamente preziosa, proiettando Israele come indiscusso leader del settore.

Nel libro “The Privatization of Israeli Security” Pluto Press 2018, l’economista politico Shir Hever spiega come Israele abbia esternalizzato la sua occupazione militare e subappaltato la repressione e come il suo complesso militare/tecnologico/industriale interagisca con i settori internazionali della privatizzazione della sicurezza attraverso società internazionali, aiuti militari e commercio di armi.
Hever, per ribadire come Israele stia “trasformando il sangue in denaro”, riporta la seguente citazione di Benjamin Beit-Hallahmi, professore di psicologia all’Università di Haifa: “Ciò che Israele ha esportato è la logica dell’oppressore, il modo di vedere il mondo legato a una dominazione di successo”.
Ciò che viene esportato non è solo tecnologia, armamenti ed esperienza, non semplicemente competenza, ma una certa forma mentis.” (The Israeli connection: whom Israel arms and why, Google Books 1982).

A richiedere riforme di riduzione della mentalità militare nella polizia e politiche di intervento che limitino l’approccio penale a favore di quello civile non sono solo contestatori, movimenti di opinione, individui privati, operatori pubblici e organizzazioni umanitarie, ma anche dirigenti, sindacati e organizzazioni appartenenti alle forze dell’ordine, perché la complessità del problema della giustizia riguarda anche e soprattutto l’aspetto culturale, sociale e sanitario, oltre a quello criminale.

Anche tutto ciò che riguarda i moderni concetti legati alla giustizia riparativa, molti dei quali inseriti nel quadro di riforme avviate dalla ex Ministra Maria Cartabia, sono strettamente legati ad una nuova presa di posizione civica e di responsabilità comunitaria, dal momento che con il termine giustizia riparativa si definisce quel processo in cui vittima e colpevole, dato il loro consenso revocabile in qualsiasi momento, dialogano, con l’aiuto di un mediatore qualificato o “facilitatore”, per risolvere i nodi del conflitto causati dal reato.

Per la giustizia penale, la violazione crea una colpa da pagare con la sofferenza e la punizione. Per la giustizia riparativa la violazione crea nuovi obblighi, attraverso i quali possa ricostituirsi giustizia ed equilibrio relazionale coinvolgendo chi ha subito il danno, chi ne è responsabile e le componenti della comunità, in un impegno a rendere giusto ciò che è sbagliato, a ripristinare una giustizia rispettosa di tutte e di tutti.

Nelle parole di Howard Zehr, criminologo americano considerato un pioniere del moderno concetto di giustizia riparativa :«essa coinvolge la vittima, il trasgressore e la comunità al fine di ricercare soluzioni che promuovano la riparazione, la riconciliazione e la rassicurazione». Pertanto, la giustizia riparativa cerca anche di rafforzare il senso di sicurezza della collettività; si rivolge agli adulti e ai minorenni; è votata allo smussamento dello squilibrio generato sia da reati gravi sia di lieve entità; mira a evitare la stigmatizzazione del reo e a promuovere il suo ritorno in società.

Sebbene il dibattito accademico e quello legislativo riguardo alla sua definizione e alla sua messa in pratica sia ancora aperto, si può affermare che essa nasca in seguito alla presa di coscienza della necessità di conferire alla vittima un ruolo più significativo, cosa che sembra esserle negata in sede processuale.

Non minore importanza viene attribuita al colpevole, il quale deve ammettere la propria responsabilità e assumere consapevolezza della violazione, impegnandosi, sulla base di un accordo stipulato con la persona offesa, a riparare il danno cagionato dal reato, dopo aver espresso formalmente le proprie scuse. A condizione, ovviamente, che non rifugga la portata della propria colpa, non minimizzi il danno provocato, non neghi nuovamente la dignità della vittima, non si erga a difensore di controvalori lontani da quelli su cui si reggono le leggi e non pretenda il perdono, in quanto gesto privato, volontario e risolutivo da parte della vittima.

Storicamente è possibile rintracciare alcuni lontani antecedenti della giustizia riparativa in alcune forme di negoziazione tipiche delle cosiddette “società semplici” o “primitive”: come la yakala melanesiana, nella quale, secondo Grazia Mannozzi – Professoressa di Diritto penale all’Università degli Studi dell’Insubria. e Direttore del Centro Studi sulla Giustizia Riparativa e la Mediazione – «i contendenti, sostenuti dal parentado, espongono i rispettivi argomenti litigiosi, attraverso figure verbali complesse o mere invettive», dove la valenza di queste ingiurie è catartica; si ricordi anche il rîb biblico, che è «un rapporto giuridico bilaterale. La finalità di chi ha subìto il torto e intenta il litigio, assumendo il ruolo di “accusatore” e di “rivendicatore”, è principalmente ritrovare il rapporto con chi gli ha fatto del male».

I concetti dottrinali che esprime la giustizia riparativa sono così semplici, così naturali da sembrare che escano da trattati di teologia dogmatica, oltre che derivare dalle basi preistoriche e primordiali di ogni forma di organizzazione sociale e civile.

L’idea di rispondere al crimine rimediando ad esso con la partecipazione diretta di tutti i soggetti coinvolti, non è dunque e certamente nuova. Ogni società è da sempre alla continua ricerca dei modi migliori con cui affrontare incidenti e comportamenti dannosi tra i suoi membri. È una ricerca da parte delle comunità per imparare a far fronte al crimine e alle ingiustizie in modo pacifico e legittimo, per bilanciare le esigenze di giustizia e riparazione nei confronti di tutte le parti senza imporre ulteriori danni.

Questa è davvero l’idea di “fare giustizia”, ​​non esercitando vendetta o ritorsioni o infliggendo più dolore combattendo il male con il male, ma coinvolgendo tutte le parti interessate – vittime, autori di reato, le loro famiglie, i membri della comunità, gli attori e le istituzioni – in un processo di dialogo in cui l’incidente e il danno causato possano essere discussi, rivisti, le conseguenze pienamente comprese e ricomposto l’ordine frantumato.  Chi ha compiuto un reato è persona, prima che ruolo giudiziario (indagata, imputata, condannata); chi ne ha subito le conseguenze è, prima ancora che parte offesa o vittima, una persona danneggiata.

Ciò non significa disconoscere il significato giuridico di reati, di persone autrici e vittime, ma ragionare a partire dai contenuti che il significato giuridico e le categorie del diritto qualificano secondo le proprie assunzioni di responsabilità e il proprio linguaggio: persone (autori/autrici, vittime), comportamenti che producono danno (reati), conseguenze (vittimizzazione, giudizio, condanna, pena).

L’idea che sta alla base del concetto di ‘giustizia riparativa’ è quindi radicalmente diversa da quella che si basa invece sul principio della compensazione del danno e orienta solamente in senso afflittivo e punitivo la reazione al reato. Esempi tipici di questa pratica sono la “legge del taglione” oppure le condanne a pene che confinano il colpevole in un luogo dove non possa nuocere, privandolo della possibilità di essere riammesso al consesso sociale con pene detentive temporanee, permanenti o, a seconda del giudizio sulla gravità del reato commesso, addirittura con condanne a morte.

La “lex Talionis” (occhio per occhio) o la carcerazione di massa non hanno posto nelle società illuminate, giuste e veramente democratiche. La punizione, infatti, può essere considerata uno strumento legittimo solo se ha un effetto deterrente e se educa la società a una migliore convivenza, pacifica e rispettosa: quando diventa mera vendetta o ritorsione o rappresaglia, il risultato può essere controproducente e generare maggiore ingiustizia e instabilità.

Per la giustizia penale il focus è sull’autore/autrice che deve pagare il suo debito alla giustizia, allo Stato; in questo modo, lo Stato si sostituisce completamente alla vittima, relegandola a pura iniziatrice dell’azione penale che esce poi di scena e che, pertanto, come afferma Nils Christie, (The British Journal of Criminology Vol. 1, gennaio 1977), diventa «una sorta di doppia perdente»: prima nel reato, successivamente nel processo, dal momento che lo Stato, che pure la rappresenta, la depriva del suo principale diritto di partecipare pienamente a un percorso riguardante la propria vicenda e sé stessa.

La giustizia riparativa propone una lettura radicalmente diversa da quella della giustizia penale. Elemento focale della giustizia riparativa è, quindi, la partecipazione attiva della vittima, dell’autore di reato e quanto più possibile delle altre parti (la comunità).

Questo significa personalizzare, cioè riconoscere le persone e le loro azioni per ciò che sono. Un reato è tale perché previsto da una norma giuridica, ma è anche, preliminarmente, un comportamento dannoso. Per la giustizia penale, la violazione crea una colpa e richiede di pagare con la sofferenza e con una punizione. Per la Restorative Justice la violazione crea nuovi obblighi, attraverso i quali possa ricostituirsi giustizia ed equilibrio relazionale e si possa rompere il circolo vizioso di violenza e repressione.

Lo scopo e lo spirito della giustizia richiedono che la legge sia molto di più che infliggere pene e sanzioni contro coloro che non osservano i dettami amministrativi, civili e penali stabiliti e che, in molte situazioni, possono costituire regimi imperfetti o addirittura deliberatamente ingiusti che perpetuano gli squilibri e proteggono i privilegi.

Naturalmente le vittime dell’ingiustizia, della violenza e delle violazioni dei diritti umani hanno diritto al riconoscimento, al rispetto e al risarcimento. Ciò può essere ottenuto attraverso commissioni civiche e tribunali popolari e non sempre richiede di mettere gli autori in prigione.

Vedere puniti gli autori di una violazione della legge non annulla il reato, non promuove necessariamente l’obiettivo di prevenire futuri reati, né rafforza una società pacifica basata sul diritto, sul rispetto reciproco e sui valori etici.
Inoltre la legge non deve discriminare tra le vittime e tra i colpevoli. Il concetto di una gerarchia delle vittime, la distinzione tra differenti tipologie di colpevoli sono indegne di un ordinamento giuridico volto a perseguire la Giustizia. Quando la legge crea categorie di vittime conformi e tollera che altri rei vengano ignorati, corrompe il concetto di giustizia, perché entrambe le parti meritano la nostra attenzione e compassione, sono uguali nella loro dignità umana e meritano di essere riconosciute e risarcite, senza discriminazioni.

Il modello di giustizia riparativa (J.Campbell, D.Chapman, McCredy) evidenzia che il problema centrale è il danno. È questa una differenza sostanziale rispetto alla giustizia penale che è orientata a rispondere (re-agire) a ciò che è stato: in particolare il crimine e chi lo ha messo in atto, escludendo, di fatto, chi di quel comportamento subisce le conseguenze: la parte lesa e la comunità; ma anche lo stesso autore e i suoi sistemi sotto il profilo delle conseguenze del processo e della condanna.

Il motto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, “Si vis pacem cole justitiam: se vuoi la pace, coltiva la giustizia”, esprime una verità fondamentale su cui si è molto riflettuto ma che non si è mai riusciti a mettere in atto. Infatti, se non c’è giustizia sociale, se le leggi non adempiono alle loro funzioni preventive e di riscatto, inevitabilmente ne derivano conflitti interni e internazionali. Ecco perché la legge è fondamentale nel fornire un quadro solido e nell’educare la società su quei diritti umani e libertà fondamentali che faranno avanzare gradualmente l’umanità verso la giustizia e la pace.

E’ dall’inizio del 21° secolo che la giustizia riparativa è diventata un movimento mondiale. Il dibattito su come le conseguenze di un reato potessero essere affrontate e risolte dai soggetti coinvolti (la vittima e l’autore del reato) iniziò alla fine degli anni Sessanta quando furono formulate proposte per progetti innovativi legati alla gestione dei conflitti e avviati i primi esperimenti di mediazione vittima-autore del reato in Canada e negli Stati Uniti.

Mentre nei paesi anglosassoni la giustizia riparativa si è sviluppata sotto forma di “conferenze di gruppi familiari” o “conferenze di comunità”, nei paesi europei la “mediazione vittima-reo” o “mediazione penale” è diventata il modello predominante a partire dagli anni ’80 prima in Norvegia e poi in Finlandia e da allora sta guadagnando sempre più consenso nelle fasi successive del processo penale, anche dopo la condanna, nelle scuole, nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle comunità, nelle carceri.

In Austria il modello è stato denominato “risoluzione extragiudiziale dei reati” ed è stato introdotto prima nei tribunali per i minorenni (1988) e successivamente anche in ambito di procedura penale.

In Inghilterra, dopo esperimenti su piccola scala dal 1979 in poi, il governo ha finanziato e ricercato alcuni progetti dal 1985 al 1987, ma non si sono espansi così rapidamente come in Germania, dove è iniziata più o meno nello stesso periodo e contava oltre 400 servizi alla fine anni ’90.

In Francia, dove iniziative rilevanti sono iniziate anche a metà degli anni ’80, la mediazione è stata rivolta al sostegno alle vittime.

Il Belgio è un altro esempio di paese dove, all’inizio degli anni ’90, la giustizia riparativa è stata avviata a partire dalla ricerca sui bisogni delle vittime, principalmente per i reati più gravi.

Questi sviluppi in Europa chiariscono che la giustizia riparativa è emersa in modo diverso a seconda del contesto istituzionale in cui i progetti sono stati impostati: da una prospettiva orientata al reato o alla libertà vigilata (Austria, Inghilterra, Germania), da una prospettiva di sostegno alle vittime (Francia e Belgio), da una prospettiva più neutrale e di governo locale (Norvegia, Finlandia), da una prospettiva di sostegno ai minori (Irlanda del Nord, Scozia, l’Irlanda, la Polonia, la Repubblica Ceca).

L’Albania ha sviluppato un modello di risoluzione dei conflitti orientato alla comunità sin dai primi anni ’90.

Una posizione particolare è stata assunta da diversi paesi dell’Europa meridionale come Portogallo, Spagna, Italia, Croazia e Grecia, dove sono stati avviati progetti innovativi e creativi a livello locale ma che sono stati spesso rallentati dalla mancanza di basi legislative o politiche nazionali.

Recentemente anche i paesi dell’Europa orientale, Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia e Georgia, hanno avviato iniziative pilota.

Per approfondire: 

Il sito Web ufficiale del Forum Europeo per la Giustizia Riparativa EFRJ offre abbondanti risorse di rapporti di ricerca e altre pubblicazioni accademiche pertinenti . Per conoscere questi risultati, sono consultabili l’articolo sull'”Efficacia delle pratiche di giustizia riparativa  e la Guida pratica sui valori e gli standard per le pratiche di giustizia riparativa”, che contengono entrambi riferimenti bibliografici.
Nils Christie, I conflitti come proprietà “The British Journal of Criminology” Vol. 1, gennaio 1977
Uno dei primi libri ad articolare una teoria della giustizia riparativa è Changing Lenses–A New Focus for Crime and Justice del criminologo statunitense Howard J. Zehr, autore, co-autore o editore di circa 22 libri, oltre a dozzine di capitoli, articoli editoriali e presentazioni, considerato un pioniere del moderno concetto di giustizia riparativa, attualmente Distinguished Professor of Restorative Justice presso il Center for Justice and Peacebuilding della Eastern Mennonite University e co-direttore dello Zehr Institute for Restorative Justice insieme al Dr. Carl Stauffer.
Importanti riflessioni su legge e punizione sono state condotte da Alfred de Zayas, professore di diritto presso la Scuola di Diplomazia di Ginevra ed esperto indipendente delle Nazioni Unite sull’ordine internazionale 2012-18. È autore di dieci libri tra cui Costruire un giusto ordine mondiale (Building a Just World Order) Clarity Press, 2021.
Per approfondire il dibattito terminologico e alcune nozioni storico-filosofiche, si vedano i primi due capitoli di “La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale”, di Grazia Mannozzi, Giuffrè, Milano, 2003.
Per il concetto di perdono come oblio, si consulti “L’etica della memoria, di Avishai Margalit”, Il Mulino, Bologna, 2002.
Un’introduzione divulgativa ai temi correlati alla giustizia riparativa è “Il perdono responsabile”, di Gherardo Colombo, Ponte alle grazie, Milano, 2011.
Molto utile anche la seconda edizione dell’ ”Handbook on Restorative Justice Programs”, a cura di Yvonne Dandurant e Annette Vogt, United Nations Office, Vienna, 2020.
Per quanto riguarda il concetto di giustizia retributiva, si veda “L’età dei diritti”, di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino, 1990, in particolare il capitolo intitolato Contro la pena di morte.
Per conoscere dettagliatamente il percorso cui hanno partecipato gli ex aderenti alla lotta armata, si veda: “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato, Il Saggiatore, Milano, 2018.


Cover; Foto: dall’Archivio fotografico e di storia sociale del Regno Unito Historic UK

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Franco Ferioli

Ai lettori di Ferraraitalia va subito detto che mi chiamo, mi chiamano e rispondo in vari modi selezionabili o interscambiabili a piacimento o per necessità: Franco Ferioli Mirandola. In virtù ad una vecchia pratica anagrafica in uso negli anni Sessanta, ho altri due nomi in più e in forza ad una usanza della mia terra ho in più anche un nomignolo e un soprannome. Ma tranquilli: anche in questi casi sono sempre io con qualche io in più: Enk Frenki Franco Paolo Duilio Ferioli Mirandola. Ecco fatto, mi sono presentato. Ciao a tutti, questo sono io, quindi quanti io ci sono in me? tanti quanti i mondi dell’autore che trova spazio in questo spazio? Se nelle ultime tre righe dovessi descrivere come mi sento a essere quello che sono quando vivo, viaggio, scrivo o leggo…direi così, sempre senza smettere di esagerare: “Io sono questo eterno assente da sé stesso che procede sempre accanto al suo proprio cammino…e che reclama il diritto all’orgogliosa esaltazione di sé stesso”.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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