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Nonostante i fiumi d’inchiostro versati e i timpani quasi sfondati dal tanto vociare, non è ancora ben chiaro se in Italia ci sia tanta evasione fiscale (sui 200 miliardi di euro) perché le tasse sono alte, oppure l’inverso.
Di certo non sta bene se ad essere comprensivi sul fenomeno sono proprio gli uomini delle istituzioni. Alcuni elogiano il parlare chiaro di certe lingue non di legno, finalmente sintonizzate sul sentire comune.
Il problema è che la politica non dovrebbe lisciare il pelo a quelli che scantonano. Primo, perché coloro che non lo fanno (o che non lo possono fare) fanno la figura dei cornuti e mazziati, il che alla lunga sbriciola, e non unisce, un paese, se proprio si vuole usare la parola responsabilità per quello che vuol dire.
Secondo, perché la politica dovrebbe prendere provvedimenti e parlare di meno. È sconsolante che nel 2013 dopo Cristo, si debba ancora puntualizzare cose che dovrebbero essere l’a-b-c della cultura istituzionale.
Ma torniamo alle tasse. Stando al documento di economia e finanza del governo, in Italia la pressione fiscale nel 2013 è al 44,4 per cento. Lo scrivono Renzo Orsi, Davide Raggi e Francesco Turino su www.lavoce.info e il divario rispetto alla media europea è di almeno cinque punti.
Se non si fosse capito, qui i cattivi siamo noi.
Sembra che qualcuno abbia voluto considerare il quattro il numero perfetto. Andando dritti al dunque, da studi e curve tirate su assi cartesiani emerge che più alte sono le tasse e maggiore la tendenza a non pagarle.
È necessario, quindi, che la pressione fiscale diminuisca. Tanto che, scrivono i tre, chi volesse spingersi oltre tali vertici di spremitura deve sapere che il risultato è addirittura una riduzione del gettito, cioè di quanto entra in cassa.
Fin qui tutto chiaro.
Ma come fare in concreto, visto che in tanti dicono che la pressione deve calare, mentre il risultato è sempre il contrario?
Gli autori dell’articolo Ridurre le tasse si deve prendono in considerazione tre scenari: l’ipotesi abbassamento di due punti percentuali della pressione su famiglie e imprese, l’aumento dei controlli della Guardia di finanza ad aliquote invariate e, infine, un mix di queste due leve.
Conti alla mano, solo la terza opzione garantirebbe il risultato ottimale di non creare buchi nei conti pubblici e nello stesso tempo disincentivare l’evasione, oltre a lasciare in giro più soldi per sostenere consumi e crescita.
Con il primo sistema, infatti, calando semplicemente le tasse bisogna essere consapevoli che si andrebbe incontro inizialmente ad almeno dieci trimestri di minor gettito.
Hai voglia poi a pretendere dall’inquilino del momento a Palazzo Chigi che vada a picchiare i pugni sui tavoli di Bruxelles, se alla domanda come siamo messi col pareggio di bilancio, nel frattempo scritto in Costituzione, si diventa rossi di vergogna.
Nemmeno la strada dei soli controlli sembra dare risultati migliori. Nel breve periodo aumenterebbero in effetti le entrate pubbliche, ma parallelamente diminuirebbero gli euro nelle tasche dei privati. Il risultato finale è che in giro ci sarebbero meno soldi da spendere, l’economia si avviterebbe e alla fine anche lo Stato rimarrebbe in braghe di tela.
Detto così, sembra tutto logico.
Eppure ciò a cui abbiamo assistito in questi mesi fra governo e parlamento è degno del film Profondo rosso, soprattutto per il ragioniere generale dello Stato.
Prima qualcuno ha addirittura promesso agli italiani in campagna elettorale che avrebbe restituito l’Imu 2012.
Come spesso accade, deve essere caduta la linea. Poi c’è stato il tira e molla sull’eliminazione dell’imposta sulla prima casa, con coperture finanziarie che andavano e venivano come i passeggeri di un autobus, e la parallela sostituzione con Tasi, Tari, Trise, Tares e, infine, Iuc.
Almeno due le conseguenze di una manovra i cui stessi genitori hanno detto che sarebbe spettato al parlamento migliorarla nei punti deboli, salvo poi puntare il dito sulle Camere se dopo la raffica di emendamenti nessuno sa più quale sia la testa e la coda.
La prima è il buco che si verrebbe a creare nelle casse dei Comuni dopo questa polka tributaria, con il rischio in più, è stato scritto, di far pagare poco a chi ha tanto e troppo a chi non ha più nemmeno gli occhi per piangere.
La seconda è che cresce la sensazione, in una politica fiscale sempre più simile al gioco delle tre carte, di pagare di più la tassa nuova di quella che è stata appena eliminata con tanto di lieto annuncio dato via etere agli italiani.
Il tutto mentre, da un lato, per settimane si è disquisito sulla ventina di euro in più in busta paga per l’abbassamento del cuneo fiscale e, dall’altro, si viene a sapere che la politica in Italia costa 23 miliardi l’anno, cioè più di 750 euro a cittadino.
Come ha detto una volta un giornalista sportivo: sono cose che fanno male al calcio e allo sport in generale.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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