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La sfida’ (Lindau, 2018) è il titolo azzeccatissimo del libro dell’ex arcivescovo di Ferrara-Comacchio, mons. Luigi Negri, scritto insieme con il giornalista Giampiero Beltotto, con prefazione dello storico Roberto de Mattei.
‘Un viaggio della fede da Giussani a Ratzinger’ – così il sottotitolo – presentato nei giorni scorsi 16 maggio nella sala conferenze della Camera di Commercio, con il giornalista de ‘Il Foglio’ Camillo Langone, in un incontro ben guidato dal caporedattore del Carlino Ferrara, Cristiano Bendin.
Già dalle prime pagine non si contano le volte che ricorrono termini come battaglia, combattimento, sfida, trincea. “Tu sei la mia fortezza”, del resto, è il motto scelto da Negri per il suo stemma episcopale “per prepararmi alla battaglia”, scrive egli stesso poche righe dopo.

La copertina del nuovo libro di mons. Negri ‘La sfida’ (edizioni Lindau)

L’impressione è la necessità di una fede salda, corazzata, per affrontare un mondo essenzialmente ostile.
Il tono dell’intera riflessione è dato dal capitolo iniziale. Tre pagine tratte da ‘Vedere l’amore. Il mio messaggio per il futuro della Chiesa’ (Rizzoli, 2017), in cui il papa emerito Benedetto XVI presagisce “tempi molto difficili”, una “crisi appena cominciata” al cui termine la chiesa cattolica “non sarà mai più la forza dominante della società”.
Non solo un’epoca di cambiamento, quindi, ma un cambiamento d’epoca, come direbbe papa Bergoglio, nella quale però – prosegue Ratzinger – “la Chiesa ritroverà ciò che è sempre stato il suo centro” e “sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come problema di struttura liturgica”.
Qui si apre un primo spazio interpretativo.
E’ legittimo cogliere, come fa Negri, uno scenario dai toni apocalittici, che richiede perciò di essere pronti e saldi di fronte all’urto della storia.
Non si può tuttavia escludere nelle stesse parole di Ratzinger, in questo tornante cruciale e drammatico, il senso di un’opportunità, pure al prezzo di perdere “molti privilegi nella società”, di ricondurre la Chiesa su quell’economia sacramentale di forte timbro conciliare. Oltre – si potrebbe dire – le polemiche di “un servizio divino” inteso “come un problema di struttura liturgica”.
Se così, è difficile non percepire un’eco anche sull’inconsistenza della recente polemica locale sulla Fraternità sacerdotale di Familia Christi, ricondotta alla sua essenza teologica: la liturgia non come clava identitaria, ma come esperienza di Chiesa resa comunione dalla grazia sacramentale. Esattamente come scritto nella costituzione sulla liturgia del Vaticano II, da diversi esperti non a caso intesa come la vera riforma del Concilio.
Lo stesso Benedetto XVI il 25 settembre 2011 a Friburgo, disse che “le secolarizzazioni significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità”.

Tornando al libro, viene da chiedersi dove trovi origine questo senso così radicalmente oppositivo e combattivo contro il mondo.
Un primo motivo sembra chiaramente legato alle aggressioni e le violenze che Comunione e Liberazione ha subito nella sua storia ecclesiale.
Dal liceo Berchet, dove tutto ebbe origine, alla Cattolica di Milano, Negri racconta di “120 attentati alle nostre sedi in tre mesi”, ricorda Lucio Brunelli “massacrato a coltellate nell’università La Sapienza” e testimonia di avere “trascorso anni andando ogni mattina per tutti gli ospedali di Milano dove erano ricoverati i nostri che erano stati massacrati nelle università e nelle scuole”.
Vero e proprio snodo è l’episodio dei quattro studenti del liceo milanese dove insegnava Giussani che durante un’assemblea, in quel clima storico, intervennero dicendo: “Noi cristiani del Berchet”.
Una sociologia delle spranghe che ha segnato vite e coscienze e che ha circoscritto il terreno ideale di congiunzione con un’antropologia teologica. La visione di un mondo che respinge il Cristianesimo. Illuminismo, modernismo, laicismo, marxismo, relativismo, nichilismo, totalitarismi, sono i colpi d’artiglieria di un assalto senza tregua. L’Anticristo, di fronte al quale, nel succo della profezia di Ratzinger, una minoranza generosa e combattiva è chiamata a non cedere alle mode del tempo, a testimoniare ad alta voce l’orgoglio della presenza e dell’identità, cioè il “Fatto di Cristo che contiene in sé il significato esauriente e definitivo della storia”, come ha scritto Luigi Giussani ne ‘L’impegno del cristiano nel mondo’ (Jaca Book, 2017, p.135).
Si comprende il disagio di Negri nella Chiesa di oggi “cui il dogma pare non interessare più”, che si ricorda di celebrare i 500 anni dalle 95 tesi di Lutero (1517), mentre dimentica il messaggio di Fatima (1917). “La Madonna comparsa a Fatima – afferma – non ha mostrato il paradiso, ma l’inferno, come a dire che il male è una presenza che nessuna riduzione psicologica o scientista può evitare”.
Un giudizio senza appello su Lutero, mentre il suo programma – sola fede, sola grazia, solo Cristo, sola scrittura – rappresenta tuttora un’agenda esigente anche per la Chiesa cattolica.

Si comprende anche perché Luigi Negri non abbia mai digerito le parole di Paolo VI (1978), che arrivò a inginocchiarsi davanti agli uomini delle Brigate Rosse scongiurandoli di liberare Aldo Moro. Pur nella considerazione di un Papa che ebbe il coraggio di scrivere l’’Humanae vitae’ (1968), la Chiesa non può stare in ginocchio, ma in piedi e pronta a sfidare un mondo che la combatte.
E così l’arco storico di massima sintonia fra Comunione e Liberazione e la Chiesa di Roma raggiunge il suo apice con la cattolicità muscolare di Carol Wojtyla, il papa polacco che portava nella propria biografia i segni della lotta contro l’Anticristo totalitario nazista e comunista, e con il tedesco Ratzinger, la cui solida teologia è stata letta come l’ideale baluardo eretto contro ogni cedimento.
Quell'”Aprite le porte a Cristo”, che inaugurò il pontificato di Giovanni Paolo II (1978), l’atleta di Dio, un “gigante” per Negri, fu avvertito come un totale cambio di rotta per una chiesa che per l’ex arcivescovo di Ferrara-Comacchio aveva smarrito la retta via. Smarrimento dovuto alle conseguenze, e anche ai cedimenti, del concilio Vaticano II, alle incursioni corrosive di teologi come Karl Rahner, figure come don Lorenzo Milani e don Giuseppe Dossetti, cattolici come Giuseppe Lazzati (storico rettore della Cattolica di Milano) e, successivamente, pastori come Carlo Maria Martini (arcivescovo di Milano dal 1979, nominato dallo stesso Wojtyla).

Un’egemonia pericolosamente incamminata sulla strada conciliare, che arrivò alla celebrazione del convegno ‘Evangelizzazione e promozione umana’ (1975), con altri due protagonisti di quella pericolosa china: padre Bartolomeo Sorge e Giuseppe De Rita.
Quella cultura “dominante” era – ed è – pericolosa per Negri perché “tentarono di farci credere che siccome la società era diventata matura, era necessario che la Chiesa italiana facesse un passo indietro”. Perché sulle ali del pensiero filosofico di Maritain quell’”egemonia riteneva essenziale la distinzione tra fede e cultura e tra fede e politica” (temi celebri di Filippo Franceschi, relatore al convegno romano del 1975 e arcivescovo di Ferrara-Comacchio dal 1976 al 1982). Perché con Dossetti si dispiegava una “apertura indiscriminata alla cultura dominante” e prendeva corpo la strada per la chiesa di “abbandonare il suo impegno nel mondo per diventare sempre più spirituale”.

E’ chiaro che espressioni come “passo indietro”, “apertura”, “abbandonare”, non sono il lessico di un cristianesimo pronto a indossare l’armatura per stare in un campo di battaglia e perciò sono letti da Negri come i segni inequivocabili di una debolezza, che seminano il pericolo di consegnare il “Fatto” cristiano all’irrilevanza.
E’ su questo punto che, probabilmente, si consuma tutta la distanza, innanzitutto teologica, fra questa visione e quella che ha trovato voce nelle parole di Giovanni XXIII (“non ha mai suscitato in me – dice Negri – particolare entusiasmo”), nel discorso di apertura del concilio Vaticano II l’11 ottobre 1962.
Il suo “dissentire” dai “profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti” era un’inversione rispetto a una secolare tradizione nella quale ogni passo di emancipazione dell’uomo era letto come un allontanamento dalla chiesa e da Cristo: da Gregorio XVI che nel 1832 vedeva la storia come una “congiura dei malvagi”, a Pio IX che nelle ragioni della convocazione del concilio Vaticano I (1868) vedeva “dappertutto propagati l’empietà, la corruzione dei costumi, la sfrenata licenza, il veleno delle parve opinioni”.
Non è semplicemente una questione che divide i pessimisti dagli ottimisti e che vede i secondi sul banco degli ingenui di fronte agli artigli del mondo, ma una lettura teologica che rivendicava diritto di cittadinanza sulla base di una rinnovata lettura delle fonti bibliche e patristiche.
Papa Roncalli disse quelle parole non semplicemente perché era il “papa buono”, come spesso è stato sminuito, ma nella fede che Cristo, cioè il risorto, è “sempre splendente al centro della storia e della vita”.
Fu quel “balzo innanzi” che Giovanni XXIII chiedeva alla chiesa cattolica di compiere per uscire dalla secolare protezione di re, principi e imperatori, tutti cattolicissimi, per inforcare la strada del dialogo e della misericordia.
Due termini che per Negri sono una rotta rovinosa, se non sono sorretti dal coraggio della verità.

Le sue parole sono chiarissime sul punto. “C’è una co-essenzialità tra verità e carità – dice citando Benedetto XVI – la carità senza verità è un emotivismo. Oggi la Chiesa sembra diventata un’erogatrice di sentimenti, emozioni. Non abbiamo più il coraggio delle verità. Ci hanno semplicemente espropriato della nostra identità culturale, in nome di quello che definiscono dialogo”.
Da qui tutte le riserve per la Chiesa di papa Francesco, che col suo slancio inclusivo verso ogni situazione di frontiera e di povertà e con la medicina della misericordia, indebolisce la forza della verità e il peso autoritativo della Chiesa, riducendo il Cristianesimo a un discorso sociale fra i tanti.
E’ rivelatore un passaggio del libro: “Io non sono nostalgico – afferma – ma ci sarà pure una differenza fra la presente struttura sociale e quella di certe monarchie del passato, in cui era forte la tradizione cattolica, quando l’ultimo cittadino dell’impero asburgico poteva, una volta all’anno, essere ricevuto dall’imperatore, per dirgli quello che aveva nel cuore. Un suddito che non solo poteva essere ricevuto, ma che pure vantava il diritto fondamentale di rivolgersi all’imperatore dandogli del tu”.
Colpisce in queste parole il rimpianto per la perdita di un ordine sociale dalla forte impronta cattolica, mentre si sorvola con incredibile naturalezza sulla differenza ontologica fra essere cittadini ed essere sudditi.
Questo sembra tuttora il bivio che divide chi nella chiesa di Roma ha una persistente visione intransigente e pessimista della storia e chi, nonostante la realtà del male, ha motivo, come scrisse don Battista Montini nel 1929 (futuro Paolo VI), di “guardare al mondo non come un abisso di perdizione, ma come a un campo di messe”.
Due posture che, oltre la rispettiva consistenza numerica, forse mai come ora stanno consumando ed esprimendo apertamente tutta la loro distanza dentro lo stesso spazio ecclesiale.
Su una cosa mons. Negri non ha torto quando dice, a conclusione dell’incontro in Camera di Commercio, di avere sentito dire, lasciando la diocesi, “per fortuna c’è il vescovo nuovo perché quello di prima non valeva niente”.
Al di là delle posizioni, sono tuttora giuste le osservazioni di Piero Stefani che qualche tempo fa, inascoltato, richiamava l’attenzione sulle occasioni perse per un confronto nel merito delle diverse sensibilità nella chiesa locale. Trattenere il respiro attendendo tempi migliori finisce per irrigidire le posizioni nelle rispettive distanze, mentre i momenti di dialogo aperto, dentro la Chiesa, aiuta tutti, perché costringe a rendere le ragioni della propria sintonia ecclesiale, che altrimenti diventano consuetudini o, peggio, fazioni irriducibili.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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