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L’Italia spendeva per la salute pubblica prima del Covid (2019) il 6,4% del Pil (un terzo in meno di Germania e Francia, e meno anche di Spagna e Portogallo). Con il Covid siamo risaliti al 7% del Pil (com’era in passato, periodo in cui la sanità italiana era tra le migliori al mondo), ma eminentemente per spese di emergenza e vaccini.
Il precedente Governo indicava un 6,1% di spesa sul Pil al 2025, inferiore a quello del 2019. Crescono così le spese per prestazioni private (40 miliardi nel 2019). E poiché gli anziani aumentano di numero, è evidente che ciò comporterà una spesa maggiore e un servizio pubblico sempre peggiore per tutti noi, il che farà crescere la sanità privata.

Il personale è calato di 40mila unità negli ultimi 10 anni col blocco del turn over inaugurato dal governo Berlusconi nel 2005 e proseguito per 14 anni fino al Governo Conte 1, che ha aumentato le assunzioni del 10%.
Uno studio di Milena Gabanelli mostra come nel periodo 2022-2027 dei 103mila medici oggi occupati nel SSN ne andranno in pensione 29mila e altri 13mila ne mancano per il blocco del turn over (totale 42mila), mentre in teoria dalle scuole di specializzazione ne arriveranno 42mila.
Sulla carta sono sufficienti, in realtà ne mancheranno moltissimi. Basta guardare a ciò che accade in Lombardia coi medici di famiglia: i posti sono in teoria 626, ma chi li frequenta di fatto sono 331 (la metà). La realtà è che ne mancheranno moltissimi, specie tra i medici di famiglia. Per gli infermieri vale lo stesso discorso.

Questo spiega i continui allarmi di Anaao (il sindacato dei medici). Così si spiega anche il fenomeno delle cooperative di medici “a gettone”, soprattutto nei pronto soccorso, che percepiscono il doppio o triplo di quelli standard ma generano gravissime disfunzioni in quanto si tratta di medici con minore esperienza. Si stima che nei week end e di notte la possibilità di trovare un medico “a gettone” sia ormai nei pronto soccorso del 50%.

Le cause di tutto questo vanno individuate in gravissimi errori di programmazione, sia del Ministero della Salute sia del Ministero dell’Università.

Il blocco del turn over spiega perché oggi oltre la metà dei medici ha più di 55 anni, la percentuale più elevata d’Europa, superiore di oltre 16 punti alla media Ocse.
Ovviamente in sanità c’è una correlazione diretta tra personale e servizi reali al cittadino, anche se l’apologia mediatica del digitale e della telemedicina vorrebbe convincerci del contrario.

La crisi del personale porta poi ad abbandonare per primi proprio i servizi meno ambiti, che sono quelli territoriali (rispetto agli ospedalieri) e quelli periferici rispetto a quelli cittadini. Per questo, in una situazione di emergenza, è necessario andare oltre l’immatricolazione aggiuntiva degli iscritti a Medicina (pur necessaria), che avrà però effetti tra 6-9 anni. Risorse professionali in tempi brevi possono essere reperite solo attingendo a due bacini:

  1. L’assunzione di laureati in Medicina abilitati all’esercizio della professione e degli specializzandi nell’ultimo anno di formazione con contratti libero-professionali o a termine – una sorta di praticantato retribuito, che non è una misura tampone ma un modo di apprendere dalla esperienza che favorisce il completamento della formazione.
  2. Il part-time senior: la possibilità per chi (infermiere o medico) si trova negli ultimi 3 anni di lavoro, di svolgere un part-time (con contributi integrali per la pensione) e di poter poi proseguire nel lavoro anche oltre il termine pensionistico. L’assunto è che lavorando part-time, moltissimi lavoratori anziani siano disponibili a lavorare più anni di quanto previsto dalla scadenza naturale, garantendo all’azienda la parte più importante delle loro professionalità ma facendola risparmiare, in modo che l’azienda stessa abbia le risorse economiche per assumere in prospettiva un giovane a full time.

Nel 2026 dovrebbero partire mille case di Comunità finanziate dal PNRR, ma i rischi che non abbiano personale a sufficienza sono altissimi. Ciò spinge chi se lo può permettere verso i privati.

A fianco dell’aumento costante delle spese per prestazioni sanitarie erogate dai privati, si assiste ad un’evoluzione del ruolo delle farmacie, che stanno diventando erogatrici di servizi una volta  appannaggio dei medici di famiglia o dei servizi territoriali pubblici.

Ciò spiega l’espansione delle multinazionali americane (Boots ha già oltre 70 farmacie, Penta Investment e Dr. Max ne hanno 32,  McKesson Corp ha acquistato nel 1999 quote in AFM  di Bologna, Lloyds è già presente con 260 punti vendita) e di altri grandi gruppi (come quello nazionale di Farmacie Italiane con 47 farmacie e 20 parafarmacie), consentita dalla legge 124/2007 per il “mercato e la concorrenza” del governo Gentiloni.

Queste corporate hanno già acquisito in Italia il 10% del mercato, dove operano 19mila farmacisti.
Anche in questo caso tra riduzione dei laureati in farmacia, vendita delle vecchie farmacie, entrata nel mercato dei grandi gruppi, si profila una profonda modifica del ruolo antico del farmacista che consigliava e del presidio sanitario che garantiva, specie nei piccoli Comuni e si passa direttamente al “business as usual”, cioè ad una logica prevalentemente commerciale. Con tanti saluti a quel servizio personalizzato che le farmacie garantivano sul territorio (in Francia esiste una legge che impedisce ai grandi gruppi di avere più del 49% delle farmacie).

Non si trascuri poi la micidiale combinazione data dalla riduzione di personale sanitario abbinata allo sviluppo della telemedicina.
Amazon (con Amazon Health Services) ha comprato per 3,9 miliardi One Medical, catena di assistenza sanitaria di base che opera sotto la rete di cliniche Healthcare.
Amazon punta così a diventare il primo operatore privato, dall’assistenza di base alle farmacie online e ai servizi di teleassistenza.

Benvenuti nel nuovo mondo sanitario digitale.

Cover: Immagine tratta dal sito di Altroconsumo

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Andrea Gandini

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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