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Intervista con Marcello Simoni, autore da un milione di copie, famoso in tutto il mondo. Ha presentato il 15 novembre a Ferrara il suo nuovo romanzo, “Il marchio dell’Inquisitore”.

di Eleonora Rossi

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Ci ha condotto in “biblioteche perdute”, in abbazie peccaminose, in “labirinti ai confini del mondo”. Con la sapienza di uno storico, con lo stile di un grande narratore.
E sempre rimanendo se stesso.
Lui è Marcello Simoni, nato a Comacchio, classe 1975, scrittore applaudito in tutto il mondo e tradotto in diciotto lingue. In pochi anni ha venduto un milione di copie, eppure si presenta come uno di noi, senza presunzione, autentico come il suo sorriso: il “lei” con cui lo saluto diventa immediatamente un “tu”.

Di Marcello ti colpiscono il garbo, l’entusiasmo e la passione con cui si dedica al “mestiere di scrivere”: la luce di un giovane autore che sta vivendo a pieno il suo sogno.
Nonostante l’agenda fittissima di appuntamenti che lo hanno visto impegnato in questi giorni nel lancio del suo nuovo romanzo “Il marchio dell’Inquisitore” (Einaudi Stile Libero) e come testimonial della rassegna GialloFerrara (“Non posso che essere orgoglioso di essere stato scelto a rappresentare questo festival, un evento in controtendenza che promuove l’amore per la lettura”), Marcello ci dedica un po’ del suo tempo e ci accoglie nel suo mondo.
Prima di dedicarsi completamente alla scrittura, Marcello Simoni ha lavorato nella biblioteca del seminario arcivescovile ferrarese, scoprendo, nei volumi dell’antichità, un universo. Firmava saggi storici, ma sentiva il bisogno di raccontare qualcosa di suo. Scrisse così il suo primo romanzo “Il mercante di libri maledetti” – e lo inviò alle massime case editrici italiane, ma senza ricevere risposta. A sorpresa, dopo un anno, il primo contratto arrivò da una casa editrice spagnola. Il romanzo uscì in Spagna nel 2010 e vendette seimila copie: a quel punto l’editore Newton Compton lo lanciò in Italia.
Nel 2011 “Il mercante di libri maledetti” conquistò il secondo posto nella classifica dei libri più venduti in Italia. È stato un successo straordinario, grazie al quale Simoni ha vinto il Premio Bancarella 2012 .

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Nel 2013 “L’isola dei monaci senza nome” vince il premio Lizza d’oro. Il 2 luglio 2015 Marcello Simoni pubblica “L’abbazia dei cento delitti”, romanzo primo in classifica con un milione di copie vendute.
Da ogni parte del mondo lo cercano per intervistarlo o invitarlo a conferenze e a presentazioni. Lui ha iniziato a viaggiare, anche se si sente “a casa” solo a Comacchio, nelle atmosfere in cui è cresciuto, tra la nebbia e il silenzio delle valli.
“Riesco a scrivere soltanto qui – confida – . È diventato importante viaggiare per presentare i miei libri o partecipare a convegni in tutta Europa. Ma a me piace vedere il mondo nella letteratura”.

Marcello è cresciuto respirando il profumo dei libri e della storia. I libri sono la sua passione, a casa ne ha una parete intera e pile ai piedi del divano, sulla scrivania, in bagno, ovunque (“per la gioia di mia moglie!”, sorride). La sua biblioteca cresce continuamente, a dismisura, e ogni volta che lo scrittore si cimenta con una nuova impresa letteraria deve liberare uno scaffale per rifornirlo con nuovi saggi e approfondimenti storici. Solo lui sa orientarsi nel suo “disordine metodico”. Marcello Simoni non sa quanti volumi possiede, ma si è impegnato a contarli prima della prossima intervista.

Il primo ottobre 2016 ti è stato assegnato il “Premio Stampa”. Te l’aspettavi? Come ti sei sentito quando hai ricevuto l’opera d’arte dedicata alla “Verità”?
Il “Premio Stampa” è stata una graditissima sorpresa, non me l’aspettavo e mi ha fatto doppiamente piacere: si trattava di un attestato di merito da parte di esperti della comunicazione e un riconoscimento del territorio a cui appartengo. La statua della“Verità” è un’opera d’arte che ho apprezzato moltissimo, sia dal punto di vista estetico sia per il significato che racchiude: ora è in bella mostra accanto al “Premio Bancarella”.

Anche tu indaghi la “verità” nei tuoi romanzi?
La verità va ricercata, va guardata in faccia. Nei libri noir la ricerca della verità è fondamentale. Muovendo da un caos narrativo, l’autore compie la sua indagine personale: c’è un mistero da risolvere, una verità da scoprire.
I lettori prediligono il genere giallo/noir perché li appassiona la ricerca di una soluzione: ma la verità nei romanzi spesso non è bella come la statua che mi è stata regalata. Lo scioglimento di un caso può svelare una verità spigolosa, problematica, che lascia l’amaro in bocca.
Perché il romanzo è specchio della realtà. E molte situazioni complesse della realtà purtroppo non prevedono un lieto fine.

Parlando di romanzi, c’è un libro o un autore che preferisci?
Non c’è un autore o un libro soltanto. Ci sono molti autori, io leggo di continuo e prediligo i giallisti, i noiristi, i romanzi d’azione. Mi piace conoscere stili e tecniche diverse di scrittura e leggo soprattutto per il piacere di leggere.
Amo il romanzo storico, ma spesso fatico a trovare libri che mi conquistano: sono volumi nei quali chi scrive tende ad insegnare, ad approfondire temi del passato in maniera didascalica. Io invece nella lettura cerco una sorta di ‘leggerezza’, da non confondere con la banalità, ma intesa soprattutto come piacere, divertimento. La narrativa a mio parere deve essere fiction, il narratore deve intrattenere il lettore, non stancarlo. Per questo mi considero uno “storyteller”.

Facciamo un passo indietro, per capire quando nasce la tua passione. Puoi raccontarci qualcosa della tua infanzia? Come è nato il tuo amore per la scrittura? Da quali letture?
Sono sempre stato un sognatore. Fin da bambino ero affascinato dalle storie: i cartoni animati erano il mio materiale narrativo preferito. Il primo libro è stato “Pinocchio”, un libro suggestivo che ancora mi sorprende per la sua complessità. Poi ho letto “Ventimila leghe sotto i mari” di Verne, e i libri di Dumas, Conan Doyle, Salgari: lì hanno iniziato a prendere forma i miei gusti di lettore.

Eri un bambino obbediente o ribelle?
Ero un bambino dolce, fino alla terza media era tranquillo e diligente, poi mi sono ‘scatenato’ un po’ alle superiori. Ma all’Università ho ricominciato ad impegnarmi seriamente.

Ti sei laureato in Lettere: come s’intitolava la tua tesi?
Era una tesi sulla storia dell’Archeologia del Territorio, dall’età etrusca al Medioevo. Venne pubblicata da Corbo nel 2001. Ho frequentato spesso il Museo Archeologico di Ferrara in quegli anni, ho collaborato con l’archeologa Fede Berti al Museo di Spina. È stata un’esperienza interessantissima di studio, di conoscenza e contatto con le fonti e i reperti.

Quando hai capito che scrivere era il tuo lavoro?
Scrivere mi fa stare bene. È un mio bisogno. Ma fino a qualche tempo fa non avrei potuto immaginare di “vivere” grazie alla scrittura: in Italia sono sempre meno le persone che leggono libri. Quando mi sono reso conto che riuscivo a mantenermi scrivendo libri, è stato come ricevere un regalo. Ho cominciato a credere davvero in me stesso. Mi sono sentito realizzato come persona.

Scrivere è certamente piacere, ma al tempo stesso è fatica, quotidiana. Servono metodo e abnegazione. Qual è stato il libro più sofferto e quale il più ispirato?
Bene o male, quando si scrive per mesi e mesi, la fatica si sente. La difficoltà maggiore è stata “scrivere a singhiozzo”: era il periodo in cui lavoravo alla trilogia dedicata all’Abbazia di Pomposa, mi invitavano continuamente ad eventi e presentazioni, ne ero onorato ma non riuscivo a scrivere con continuità. Terminata la trilogia, ho faticato a trovare la giusta concentrazione nel ‘salto’ dal Medioevo al Seicento, con il romanzo “Il marchio dell’Inquisitore”: si è trattato di una sorta di trasloco mentale da un’epoca ad un’altra. Ho dovuto catapultarmi in un altro mondo, immedesimarmi in modi di pensare, di vestire, di vivere totalmente diversi. Ci è voluto un po’ di tempo! Ma poi mi sono molto divertito.

Puoi darci un assaggio di questo tuo ultimo lavoro, fresco di stampa per Einaudi Stile Libero e presentato il 15 novembre da Matteo Bianchi a Ferrara?
È un esperimento narrativo: una mia reinterpretazione del romanzo storico, una piccola scommessa con me stesso, giostrandomi tra giallo e romanzo storico. Il protagonista è un frate domenicano del 1600, Girolamo Svampa, personaggio carismatico ma dalla personalità sofferta, con tratti di autismo e un’incapacità di sviluppare autentica empatia nei rapporti umani.
Sullo sfondo, la Roma Vaticana del Seicento: il periodo più agghiacciante dell’Inquisizione. Ho cercato di offrire uno spaccato della capitale e delle sue profonde oscurità, delle prigioni e delle torture. La Roma del rogo dei libri, ma soprattutto della caccia alle streghe.

Non vedo l’ora di leggerlo!

Finora hai scelto di ambientare i tuoi romanzi nel passato. Ti mimetizzi anche tu nelle storie? Se sì, quali panni indossi?
Nei miei romanzi generalmente non c’è un unico protagonista, vi sono diversi personaggi in una dimensione corale, in una pluralità di punti di vista. Io mi immedesimo in tutti i personaggi e cerco di sperimentare le singole prospettive; all’inizio era più complicato per me entrare nell’ottica dei personaggi femminili, ma ho scoperto le donne sono molto intriganti, riservano sempre sorprese. Io sono tutti e nessuno.

Nove romanzi, innumerevoli personaggi nei quali immedesimarsi e moltiplicare te stesso. E milioni di lettori in tutto il mondo. Dopo le soddisfazioni di tutti questi anni, hai ancora un sogno nel cassetto?
Il mio sogno lo sto vivendo. È iniziato con il “Mercante di libri maledetti” e ora il mio desiderio è prolungare questo sogno, dargli continuità. Per questo motivo sto cercando di lavorare al meglio, con entusiasmo, in modo serio e professionale. Ho un editore grandioso come Newton Compton e il mio inizio con Einaudi è stato molto incoraggiante.
Il mio sogno è fare lo scrittore. Ho ancora tanto da dire. Ho ancora tanto da scrivere.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

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