Hanno chiuso i Musei di nuovo. E io soffro. Soffro molto. Ma poi la mia mente, incapace di sostenere tutto questo, comincia a tracciare dei percorsi e a pescare quadri rimasti imbrigliati nella rete succosa di sinapsi che hanno ancora da dirmi qualcosa. E allora cammino su e giù per la cucina, l’ingresso il salotto e poi l’ingresso e il corridoio lo studio e la camera da letto e poi di nuovo l’ingresso con gli occhi assetati di sgranchirsi e allungarsi oltre le limitanti pareti, oltre la finestra con i palazzi di fronte, oltre… fino a salire quelle scale abbaglianti tra guardiane fiere dormienti varcare l’ingresso ed entrare. Guardo tutto quel che è lì apposta per lasciarsi guardare, sala dopo sala; quando a un tratto qualcosa cambia, il ritmo cambia, il suono dei miei passi rallenta. Non sono più io a guidare il gioco. Abbasso lo sguardo e ascolto. Ascolto e avverto qualcosa, un calore alle mie spalle. Una figura serena e determinata seduta sulla panchina mi guarda. Una figura dipinta mi guarda. Sono guardata. Lei è all’aperto seduta sulla panchina e sembra avere tutto il tempo di questo mondo per guardare me chiusa in una scatola. Sono io l’oggetto immobile. E allora socchiudo gli occhi e ascolto la vita raccontata da quelle pennellate.
Era con le mani in mano, nessuna commissione. Chiese a mio padre se poteva farmi un ritratto. Lui gli rispose “Chiedi a lei… se le va”. Si volse e io ero già lì. Non servì parlarne. Andai subito a prendere dei libri a caso. Non avevo mai avuto questa esperienza e immaginavo fosse piuttosto noiosa. E non sapevo quanto tempo ci avrebbe messo. Avevo sentito parlare di reggimento in metallo, imbracature per tenere il busto fermo, o roba simile. Tutta roba “invisibile” che non è mai comparsa dipinta nei quadri ovviamente, ma che permette al soggetto di stare lunghe ore immobile. Perciò ero ancora più curiosa dei retroscena. Curiosa di vedere e toccare gli “arnesi segreti” del mestiere. Presi anche l’ombrellino, visto che il pittore si stava dirigendo con il cavalletto all’esterno, per evitare di bruciare la pelle al sole.
E invece accadde qualcosa che mai mi sarei aspettata. Quel suo scrutare ogni mio dettaglio da riprodurre su tela, era più interessante di qualsiasi altra cosa. Il tempo mi volò contemplandolo. Chi guarda chi. Mai ci rivolgemmo parola ognuno protetto nella propria bolla di sogno. Il mio sguardo esagerò e lui lo riprodusse fedelmente. Ciò mi condannò allo scandalo. Sparì ogni mio pretendente ritenendo che quei miei occhi, velati da lune insonni, rivelassero una certa intimità con Corcos, il pittore amico di mio padre. Mai i miei pensieri furono rivolti a lui come uomo ma alle sue mani d’artista, al suo occhio agitato, al sopracciglio fremente. Fu il mio stupore per lo spettacolo pirotecnico di un uomo immerso nella sua passione. Nulla di più. Avevo ventitré anni e lui trentasette con una giovane raffinata colta sensibile moglie; e con figli. Io scalpitavo una vita emancipata e imprevista che voleva decollare anzi “librarsi” da una vita già scritta e racchiusa in mere e antiquate pagine di inchiostro. Lui era al culmine della sua carriera mentre io rimasi inchiodata a quello sguardo. Il mio volo si schiantò dentro quella tela.
Note
• Tela di Vittorio Matteo Corcos “Sogni”, 1896. Esposta oggi alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea a Roma. La ragazza ritratta è Elena Vecchi, figlia di Jack La Bolina. un amico del pittore.
• Questo Scritto è a metà tra sogno dell’autrice e realtà.
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Francesca Alacevich
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