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La questione del lavoro è una delle più serie per le prospettive di un paese. Per affrontarla seriamente (non con qualche costoso e poco utile escamotage di breve periodo) bisogna capire cosa sta succedendo. I cambiamenti non possono essere ignorati. L’era dei robot riduce il peso del lavoro: insieme ad una sostanziale erosione del suo valore (un operaio cinese costava un decimo di un americano, una macchina dieci volte meno di un cinese) assistiamo ad una sua sostituzione ad opera delle macchine.
Un volume di McAfee e Brjoson, “The race of machine” di qualche anno fa recitava nel sottotitolo: “Come la rivoluzione digitale sta accelerando l’innovazione, guidando la produttività e trasformando in modo irreversibile lavoro ed economia”. Gli esempi sono numerosi: dal controllo automatizzato del magazzino al commercio on line, molti altri si stanno profilando. Le tecniche di riconoscimento vocale rivoluzionano i call center: gli addetti alle informazioni sono sostituiti da call center digitali che fanno progressi rapidi sulla base di una comprensione semantica che cresce velocemente. Si riducono i costi: le aziende che utilizzeranno questi dispositivi saranno in grado di fornire servizi a un prezzo inferiore del 60% e con maggiore efficienza: il tempo che intercorre dalla domanda alla soluzione di un problema cala da 18 a 4,5 minuti.
Il rapporto tra innovazione e lavoro è emblematicamente esemplificato dal fatto che la sproporzione tra numero di lavoratori e valore economico di una azienda non è mai stata così forte. Gli esempi sono numerosi: Kodak negli anni 80 aveva 140.000 dipendenti, Instagram ne aveva 13 al suo avvio nel 2012. Quando Youtube è stata comprata da Google per 1,65 miliardi di dollari, la sua forza lavoro consisteva di 65 persone per la maggior parte ingegneri (25milioni di dollari a testa che è anche il valore medio di un dipendente di Facebook). Whatsapp è stata comprata per 19 miliardi di dollari, il valore di ognuno dei dipendenti tocca i 345 milioni di dollari. Oggi i 3.300 dipendenti di Twitter producono un valore di 32miliardi di dollari.
Amazon impiega 14 dipendenti per ogni 10 miliardi di dollari generati, contro i 47 dei negozi tradizionali. La spesa sarà fatta sempre di più on line e la consegna a casa potrà essere fatta con i droni, ma ciò non sarà senza conseguenze per il milione di addetti al trasporto in Italia. Inoltre i droni sapranno fare rilievi sui terreni per costruire palazzi, sapranno prelevare campioni di acqua nei torrenti per rilevare l’inquinamento, fare riprese dall’alto per i giornalisti (che peraltro saranno molti meno di oggi perché sostituiti dai computer). Google Car, l’auto autoguidata sarà sul mercato nel 2026 ed entro una generazione la guida sarà sostituita, con vantaggi per la sicurezza ma con tagli enormi nei trasporti.
Il risparmio di lavoro riguarda già un largo numero di mansioni anche qualificate. Secondo le previsioni della McKinsey entro il 2025 250 milioni di posti di lavoro saranno rimpiazzati da software. Può sembrare un orizzonte futuro lontano rispetto alla situazione odierna, ma non è così: questi temi impongono la necessità di sistemi di istruzione in grado di valorizzare le opportunità dell’innovazione per non subirle e, per il sindacato, riflessioni serie sulle forme di rappresentanza e di tutela.

Maura Franchi insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia. Studia le scelte di consumo e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.
maura.franchi@gmail.com

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Maura Franchi

È laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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