Dall’alterità fra i generi alla qualità delle relazioni fra i generi
di Roberta Trucco
Quando ho letto la risposta di Umberto Galimberti alla lettera di Giuliano Faggiani dal titolo ‘Che differenza c’è tra l’uomo e la donna?’, su D di Repubblica sabato scorso, sono saltata dalla sedia e ho pensato: “finché questo sarà l’approccio alla differenza tra donna e uomo sarà necessario essere femministe, anche un po’ arrabbiate”. Poi mi è capitato di leggere un articolo di Carlo Revelli sul Corriere della Sera dal titolo ‘Dissentire aiuta, inutile scrivere per i già convinti’ e così mi sono decisa a scrivere per cercare un confronto creativo e per dire garbatamente perché secondo me è un errore cercare di definire uomini e donne a partire da modelli binari.
Cercare una definizione che crei formule applicabili ai generi, sacrificando la complessità dell’essere umano maschio o femmina, è l’errore. Non vorrei essere fraintesa, io sono convinta della grande differenza che segna l’essere umano incarnato in un corpo femminile o in un corpo maschile, la differenza ontologica c’è, è indubbio, ma poi c’è quella unica e irripetibile di ogni individuo, “granello” come lo definisce Revelli, che ha il grande potere, se capace di diventare pensiero collettivo, di segnare la storia e la nostra evoluzione.
Ed ecco arrivo al punto della mia rabbia. Se si continua a relegare la “donna vicina alla natura perché generativa e l’uomo alla cultura perché libero dal vincolo della natura”, si continuerà a non riconoscere quanto la cultura femminile abbia segnato e segni l’evoluzione dell’umanità. Si continuerà a relegare la donna alla maternità come sua unica competenza, una competenza solo naturale, quando invece è assai culturale. E si continuerà, forse involontariamente, a riservare al maschio lo spazio del pensiero (logos) e a negarlo alle donne. Maria Van Shurman, una delle donne più colte del suo tempo, contemporanea di Cartesio (naturalmente quasi mai citata dalla storia della filosofia) contrapponeva al “cogito ergo sum”, il suo “sum ergo cogito”. Ecco, forse questo definisce bene una delle possibili differenze dell’essere incarnati in un corpo maschile o in uno femminile: il punto di partenza del viaggio psichico che ogni bambino/a deve intraprendere per diventare adulto/a, “per rinascere in acqua e spirito” come dice il Vangelo, ma sono convinta che la distanza dal sé autodeterminato del maschio e della femmina non è così facilmente tracciabile nel percorso natura o cultura. Noi tutti siamo animali naturali (da natus): nasciamo e in quella esperienza c’è tutta la forza della vita, in quella prima relazione con la madre certo, ma vista da figli (tutti siamo figli, non tutti forse saremo madri o padri). E siamo animali culturali (da colere, coltivare), in pari modo. Cioè coltiviamo pensiero, generiamo con le mani e con la mente, generiamo ogni giorno attraverso il lavoro intellettuale e materiale, e questo lo facciamo fin dai tempi antichi, maschi e femmine.
E la cosa divertente in tutto questo mio parlare è che sono una femminista atipica: la mia professione primaria è la maternità, sono madre di quattro figli e sono casalinga (scrivo di tanto in tanto). Sono dunque una convinta sostenitrice della maternità come competenza, anche di quella in potenza, convinta che oggi quel sapere ancestrale è necessario al mondo per non collassare, ma non sopporto di vedere ridotta la donna e la sua differenza alla – pur immensa – potenza della prima relazione che segna l’essere umano. Le relazioni sono necessarie all’essere umano, lo definiscono. Senza l’altro non sappiamo chi siamo. Ecco perché gli uomini/maschi, invece di continuare a interrogarsi sulla differenza tra donne e uomini, dovrebbero incominciare a crescere, a mettersi in gioco nella relazione senza timori, senza continuare a giustificarsi dietro l’impossibilità di farlo totalmente perché mancanti dell’esperienza della gestazione. Anche perché, va detto, questa narrazione di alterità donna/natura e uomo/cultura, quando riguarda la sessualità, viene capovolta dagli stessi maschi a giustificazione della loro violenza inaudita contro le donne.

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Redazione di Periscopio
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)