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uella mattina andò al lavoro con una copia dell’Unità, il giornale del Partito comunista italiano, infilata nella tasca dei pantaloni. In quella fabbrica, lo sapeva, tutti avrebbero notato il suo gesto. I padroni erano due fascisti, uno dichiarato e tracotante, l’altro subdolo e vendicativo, che parlava poco e non ti guardava mai in faccia. Due che si circondavano di un gruppo di yesmen che non li contraddicevano mai. Gli altri operai e impiegati tacevano e subivano, oppure facevano un po’ di resistenza passiva, obbedendo il più lentamente possibile agli ordini dei capi.

Entrò nell’ufficio tecnico con il quotidiano che posò sul tavolo. Aveva di fronte un tecnigrafo e un foglio da disegno. Indossò un camice bianco e stette a pensare un po’.

Aveva da poco cominciato a frequentare la sezione locale del PCI e ad assistere alle riunioni che si tenevano il tardo pomeriggio, a fine lavoro, e soprattutto di sera, frequentate da militanti anziani e da operai e operaie stanchi e assonnati.

C’era uno, un benzinaio, che pronunciava interventi infiammati; un altro che sillabava le parole come se cesellasse il discorso, una donna che si esprimeva un po’ in dialetto e un po’ in italiano… Giovani pochissimi. Qualche apprendista dallo sguardo un po’ vacuo, una ragazza che lavorava da parrucchiera, un’altra impiegata in un magazzino frigorifero che stavano zitti e ascoltavano.

Lui si sedeva fra i giovani e qualche volta interveniva, tentando ragionamenti nei quali finiva per perdersi. Il funzionario che presiedeva la riunione lo ascoltava con un’espressione di disappunto. Lui non era molto in linea, come si diceva allora, e lo sapeva. Non era molto devoto al comunismo in versione emiliana, che spesso, almeno dalle sue parti, gli sembrava non indicare altre strade, nuove idee per cambiare la società, amministrando l’esistente. Le riunioni si concludevano quasi sempre con una sorta di cerimonia rituale, con qualche indignata frase contro i padroni e il capitalismo; ci si salutava e alla prossima.

Si riscosse e cominciò a disegnare sul foglio che aveva davanti. Doveva completare le fasi lavorative di un pezzo, per ognuna delle quali aveva rilevato i tempi. Una mansione odiosa, il rilevatore: quando andava in officina, gli operai controllati rallentavano apposta i loro ritmi. Lui se ne accorgeva ma non diceva nulla e segnava i tempi allungati, mandando dentro di sé il taylorismo a farsi fottere.

Disegnava e a un certo punto cominciò a cantare, a mezza voce. Così, d’acchito. L’impiegata, che aveva la scrivania di fianco alla sua, sgranò gli occhi. Cantare, in ufficio, in quella fabbrica? Dove se ci si fermava un minuto si veniva apostrofati dal padrone fascista prepotente, con voce stentorea, alla Mussolini?

Beh, lui cantava, una versione moderna di una canzone antica, che andava molto di moda. Gli altri dell’ufficio stavano zitti. La ragazza lo fissava, sempre più meravigliata. Fino a quando, da dietro l’ultimo tecnigrafo, sbucò uno dei due padroni, quello che non guardava mai in faccia, e gli passò davanti, senza dire nulla.

Passarono alcune settimane e lo licenziarono, senz’altra motivazione di aver avuto un incidente sul lavoro: aveva toccato una presa elettrica scoperta collegata ad una linea a bassa tensione; per fortuna la scarica lo aveva sbalzato in terra, dentro uno scatolone pieno di lana di vetro. Se la cavò con una bruciatura ad un dito.

Si aprì un’indagine, il pretore comminò una forte multa all’azienda. E dopo pochi giorni dagli uffici un dirigente venne a dirgli che non avevano più bisogno di lui, che non se ne facevano nulla della sua intelligenza.

Nessuno protestò, nessuno intervenne a sua difesa, neanche il sindacato a cui era iscritto.

Più o meno così, negli anni Sessanta, in molte fabbriche girava il mondo.

Racconto inedito, proprietà dell’autore

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Franco Stefani

Franco Stefani, giornalista professionista, è nato e vive a Cento. Ha lavorato all’Unità per circa dieci anni, poi ha diretto il mensile “Agricoltura” della Regione Emilia-Romagna per altri 21 anni. Ha scritto e scrive anche poesie, racconti ed è coautore di un paio di saggi storici.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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