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di Liliana Cerqueni

Il mare si muove con un fragore assordante. Le onde sembrano muri altissimi che si inabissano e poi riemergono ancora più imponenti e terrificanti, in un’altalena infernale. Sulla barca sono appiattiti l’uno contro l’altro premendo, schiacciando, urtando in continuazione il vicino di posto, tentando di mantenere disperatamente la posizione perché è sufficiente che uno, anche solo uno si sbilanci e la fila crolla come un grande domino. Gli uomini sono accovacciati, inginocchiati, acciambellati con quelle loro lunghe gambe che hanno percorso interminabili distanze, abituate a marce senza fine, una volta scattanti e ora anchilosate. Una tristissima fila umana che procede a spirale e si avvolge per tutta la lunghezza del peschereccio e quelli che non hanno trovato posto sulla tolda, siedono ora sul tetto della cabina di comando, ancora più esposti agli schiaffi violenti dell’acqua e alle potenti raffiche del gharbi che proviene dal Sahara. Una moltitudine di esseri viventi che occupa ogni centimetro quadrato di quello spazio in balìa del finimondo, appesantendo l’imbarcazione oltre ogni limite. Le donne, solo una trentina rispetto ai 200 uomini, quasi tutti libici in fuga dalla guerra, dal caos e dalla fame, stanno raggruppate a poppa, un branco di esili figure coperte da stole coloratissime ormai sporche, rannicchiate in se stesse, incollate fra loro per proteggersi dal freddo, dall’acqua e dal senso di morte che cavalca i flutti. Alcune di esse abbracciano i loro figli piccoli che spariscono sotto l’ampio vestito delle madri perché è l’unica barriera difensiva in quel momento. Dal capo coperto delle donne sbucano ogni tanto sguardi furtivi e veloci che esplorano rapidamente ciò che appare intorno, cioè mare, mare, mare rabbioso. L’imbarcazione sembra una gigantesca ‘Zattera della Medusa’ che, come nel dipinto di Thèodore Gèricault, trasporta speranza e terrore, fortuna e avversità, vita e morte, che si intravvedono in quei volti tesi e stravolti. Sono già 15 ore che navigano su quella carretta del mare che incassa acqua e nessuno si è ancora mosso perché ad ogni tentativo scattano le urla del capo che impugna una pistola e ha già sparato alcuni colpi in aria. Dalla spalla sinistra gli pende anche un fucile che lui tocca ogni tanto come sentisse il bisogno di assicurarsi che è sempre là, pronto per l’uso. Ha una faccia terribile, deformata dalle smorfie, con una bocca semisdentata spalancata, pronta ad ogni tipo di ingiuria e minaccia, un infame nocchiero, un Caronte moderno, traghettatore di anime all’inferno. Di cibo e di acqua non si osa parlare, anche se negli accordi e nel prezzo erano previsti anche quelli, poche cose, tanto da mettere qualcosa nello stomaco durante la navigazione. Qualcuno l’ha ricordato ma ha ricevuto in cambio delle percosse col calcio del fucile. O si sta fermi e passivi, o si viene buttati a mare – richiama l’altro individuo che pilota la barca. Si dividono quello che sono riusciti a portare ma non basta per tutti e lascia affamati e assetati anche coloro che lo possedevano. E quelle poche bottiglie di alcol ricavato dal legmi fermentato, la linfa del tronco di palma da dattero, che qualche tunisino teneva nascoste, sono ormai terminate e non sono servite a nessuno, nemmeno a scaldarsi, stordirsi e farsi coraggio.
Il barcone oscilla paurosamente e si inclina così tanto da far temere che si capovolga ogni volta. Qualcuno vomita, qualcun altro lancia un urlo ogni volta che sprofondano tra le onde. C’è un uomo che assurdamente intona una nenia, immobile e concentrato. Mai la musica è stata così fuori posto come ora, in questo scenario. Il mare rivendica esclusività con il suo rimbombo, il frastuono, il sibilo del vento tra onde e il boato senza fine. Un rumore inconfondibile e macabro, lo stesso rumore che i pescatori conoscono da sempre perché è diventato parte di loro.
Bechir si nasconde sotto i teloni di plastica, tra i bidoni di carburante e i rotoli di cordame, sempre più circospetto, sempre più vigile, clandestino tra i clandestini. Si è nascosto là che non era ancora l’alba, dopo aver osservato attentamente l’andirivieni di quegli imbarchi disperati di chi voleva abbandonare la Tunisia e l’Africa per un altro mondo, non importa quale, sicuramente l’Europa, l’Italia, chissà che altra meta. L’importante è partire, scappare dalla miseria o dall’orrore della guerra, lasciarsi alle spalle tutto con il miraggio cangiante di una vita migliore come nei film e nei racconti conditi con molta affabulazione di altri che ce l’hanno fatta.
Dal suo nascondiglio ha scorto salire Yassine, Fouad, Sabri e pochi altri di Chergui, la sua isola, nell’arcipelago delle Kerkennah, nel Golfo di Gabès, proprio di fronte a Sfax. La sua isola, troppo stretta per coltivare sogni, troppo arida e ormai desertificata per coltivare grano! La sua famiglia come tante altre vive di pesca e si aiuta con l’allevamento di qualche capra e qualche pollo. Accompagnava suo padre ogni giorno a pesca di polipi e seppie ed erano due braccia in più per raccogliere le anfore adagiate sui fondali e lasciate là affinchè attirassero i molluschi che, una volta entrati, rimanevano imprigionati nella sabbia che riempiva il vaso. “Agricoltori del mare” li chiamano, per quella strana suddivisione dell’acqua in appezzamenti, come fosse un grande latifondo frazionato in campi, che ciascun padre ha ricevuto dal padre e a sua volta lascerà al figlio assieme a quel patrimonio di anfore indispensabili. Il pescato non manca mai in quei posti dove regna una quiete statica perenne. Niente disturba gli isolani, quella piccola comunità distribuita sulle uniche due isole abitabili, tra una corona di altri brulli e ostili puntini che emergono dal Mediterraneo. Niente e nessuno è riuscito a modificare e stravolgere l’esistenza di questo piccolo popolo di origine berbero-libica, abituato, nel corso della storia, agli approdi ed agli sbarchi di Fenici, Cartaginesi, Romani, Musulmani, Spagnoli e Ottomani. Le “Isole dell’esilio” hanno dato rifugio accoglienti, rassicuranti, discrete, circondate dai miti e dalle leggende che ne fanno il regno della maga Circe, seduttrice di Ulisse, il rifugio di Annibale inseguito dai Romani e, in epoca più recente, la dimora di Habib Bourghiba, padre della Tunisia moderna in fuga dalla repressione coloniale francese.
Eppure, la voglia di andarsene è forte e il richiamo di altri luoghi ridisegnati nelle singole menti come paradisi di fortuna e felicità si fa sentire proprio come il canto delle sirene, che popolano i racconti di queste isole.
Erano mesi che Bechir ascoltava le chiacchiere giù al porto e, mentre riavvolgeva funi e scaricava cassoni di anfore selezionando i molluschi col padre, tendeva l’orecchio e beveva ogni singola sillaba di quei discorsi che giravano intorno al partire, andarsene da là. Erano giovani e meno giovani che si passavano informazioni sulle grandi città, sugli altri Paesi dove sarebbe stato diverso. Occorrevano oltre 2000 dollari ma ne sarebbe valsa la pena, si diceva. Bastava girare al largo da Malta, perché Malta non ti vuole; meglio puntare, invece, l’Italia, la Sicilia, è un po’ più a Nord-Ovest e nessuno ti rimanda indietro. Se le motovedette della polizia costiera maltesi ti respingono, si deve proseguire, non rischiare. La sapevano tutti lunga, ognuno diceva la sua ed aggiungeva altre informazioni, frequentissimo il nome di Pantelleria. Bechir ascoltava e guardava il padre logorato dalla vita in mare, vecchio senza essere vecchio, le mani deformate dall’artrite e ragnatele di solchi sul viso, prodotto del sole, delle tempeste e della salsedine che cristallizza la pelle. Non avrebbe fatto quella fine, si ripeteva.
Là al porticciolo arrivano i camion carichi di gente, prevalentemente libici in fuga, che da quel posto partono in tutta fretta di notte per le rotte dell’imponderabile. Hanno raggiunto l’isola dopo aver vagato a lungo nel deserto, ed hanno lasciato tra la sabbia quei loro compagni troppo deboli e fragili per resistere; un lungo esodo su cui aleggia la morte probabile, per alcuni la morte certa. Prima del mare c’è il deserto che uccide. E i trafficanti di uomini esultano ogni volta che realizzano il carico, tanto di disperati non ne mancano mai. La merce umana ha un valore e ogni carico corrisponde a un bottino consistente. Chergui e Gharbi, le “isole dell’esilio” sono diventate le “isole della fuga”.
Nel cuore della notte i mezzi sgangherati arrivano quasi di soppiatto, con i fari spenti e il motore al minimo. Scaricano i fuggitivi che hanno raccolto nelle varie zone dell’isola e se ne vanno in pochi minuti. Un’operazione quasi silenziosa perché è meglio abituarsi subito alla clandestinità. I barconi arrugginiti sono già pronti per salpare e gli scafisti si aggirano come mastini in allerta, pronti a incassare, controllare, intervenire, smistare, ordinare. Hanno in mano il destino di quei disgraziati e questo li rende arroganti, aggressivi, tronfi. Chi non ha pagato non sale, gli altri si affrettano a raggiungere la barca entrando per alcuni metri in mare. Questo è il rituale, questa la surreale scena che nelle notti più chiare assume connotati ancora più tristi perché le shilouette di uomini e donne si stagliano nitide e visibili in tutta la loro tragicità.
Bechir aveva agito d’impeto, non occorrevano tante elucubrazioni per decidere di andarsene. Aveva sentito tante storie, tanti racconti su quello che lo attendeva aldilà di quel mare: c’erano grandi città, c’era una vita che prometteva qualcos’altro che la povera quotidianità fatta di anfore, ritmi lentissimi, la terra arida e le capre. Quando era salito furtivamente sull’imbarcazione, eludendo l’occhio implacabile dei trafficanti, si era raggomitolato nell’unica zona buia che gli permettesse di sparire alla vista di tutti. Se ne era rimasto là immobile, ad aspettare che tutto si compisse. Sentiva l’andirivieni di chi man mano prendeva posto sul tavolato della tolda, qualcuno questionava innervosito, altri parlavano sottovoce tra loro, un bambino piangeva sommessamente, consolato dalla voce calda di una donna. Erano partiti quasi subito, col favore della notte, diretti verso una seconda vita, animati da un senso di disperazione e frenesia di arrivare ad una qualche destinazione. Non esistono su quella barca, sentimenti di quieta speranza, fiducia nel domani, eccitazione nel pensare e disegnare un futuro diverso. No, esiste solo l’impulso primordiale della preda che fugge al predatore, l’aggrapparsi all’unico proposito che è quello di lasciare quei posti della costa africana e guardare ad un punto indistinto e lontanissimo davanti a sé. E’ tutto il loro bagaglio.
Nessuno si è accorto di Bechir che sta acquattato nel suo spazio nascosto e non riesce a vedere quello che in superficie sta accadendo. Non vede il mare ma lo sente sempre più furibondo, non raccoglie distintamente quello che gli altri dicono ma avverte la tensione che si sta trasformando in terrore, perché il terrore ti raggiunge come avesse una sua materialità e si potesse toccare con la mano.
Si avvolge sempre più in se stesso abbracciandosi le ginocchia e come un flash lo raggiunge il pensiero di suo padre Chali, la madre Fatma, i fratelli, la gente del suo villaggio. Ma sono solo brevissimi istanti perché quell’apocalisse non consente di pensare.
Bechir si alza improvvisamente e sale malfermo i pochi scalini che lo separano dal ponte, emerge in superficie dopo ore ed ore di beccheggi, scossoni, secche virate e rollii che ora sono diventati movimenti violenti e scoordinati, un procedere a vuoto, un girare su se stessi a mulinello nel pieno di una burrasca indescrivibile. Non riesce a vedere nessuno in particolare, solo una massa di esseri in preda a forze devastanti e distruttive. Urla di uomini che si perdono nel vento, gente che si aggrappa al parapetto dell’imbarcazione ormai ingovernabile che sta colando a picco. La bagnarola perde pezzi ed ha una falla enorme sul fianco. Un gruppo di donne si abbraccia come se quell’abbraccio fosse l’ultima possibilità salvifica rimasta.
Due uomini cadono in mare, seguiti dopo poco da molti altri. Impossibile opporre resistenza a quel mostruoso risucchio senza fine.
Bechir si sente scivolare verso quell’acqua fredda e si lascia andare, abbandonando ogni sforzo, la questione sopravvivenza non gli appartiene ormai più perché quel duello col mare è ridicolo, una partita persa.
E’ tutto finito, anche i canti delle sirene.
Sono solo corpi che scompaiono in quel mare che inghiotte avidamente vite umane, un enorme dio Moloch che chiede il sacrificio estremo, il suo tributo all’umanità.
Bechir aveva solo 15 anni

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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