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I titoli e i libri, che inganno

Vite di carta. I titoli e i libri, che inganno

Fosse per i titoli, avrei sbagliato strada innumerevoli volte. Credendo di leggere un romanzo storico e trovandomi, invece, dentro un thriller e così via in un fraintendimento più spiazzante dell’altro.

Il titolo in un libro è o vorrebbe essere il suo biglietto da visita. Lavorandoci a scuola con i ragazzi il rapporto tra i due ha fatto costantemente parte dell’analisi di un testo, sia per evidenziare la relazione tra cornice e contenuto, sia per cercare la congruità che ci può essere tra le parole che annunciano una storia e la storia raccontata.

Come per poesia e prosa, in qualunque ambito quest’ultima venga utilizzata come scelta espressiva, il legame che unisce il titolo al suo testo può andare da un massimo di connotazione, e risultare così creativo e sorprendente, al massimo opposto della denotazione indicando con esattezza il contenuto a cui dà l’avvio.

Che delusione scoprire, come hanno ammesso molti degli autori incontrati, che il titolo viene spesso deciso non da loro ma dalla “casa editrice”, così dicono.

Che perdano il patrocinio sull’etichetta del loro libro mi è parsa sempre una sorta di espropriazione. Il titolo è un assolo da non delegare ad altri, spetta a chi si assume la responsabilità della narrazione. In fondo, non può fuggire dalla storia e a lei ritorna, anche quando sembra non richiamarla. Anzi, più è distante più recupera in profondità nella connessione col senso del racconto.

I titoli dei miei testi sono quasi sempre i primi che scrivo, e comunque li modifico di poco se occorre.

Sarà che la scrittura esce da una sorta di comparto nella mia mente, in cui si è già formato quel corpo di parole che poi si srotola come testo. In questo, il titolo è la bussola che ha dentro la sintesi di ciò che intendo dire, la seguo negli spostamenti dentro le parole mentre vengono scritte in ottemperanza a una volontà.

Con ciò dico che amo particolarmente i titoli creativi, mi attirano per il loro suono, per le metafore che contengono, per i riferimenti a cose e personaggi non immediatamente comprensibili, per le promesse che fanno, sia che vengano poi mantenute, sia che no.

Un titolo-capolavoro è La tonsillite di Tarzan di Alfredo Bryce Echenique: forse la sua imperscrutabilità nel rapporto con la vicenda raccontata è insuperabile. Si tratta di una storia d’amore, una storia in cui a narrare della sua donna è il compagno, lei è Tarzan ed è una donna forte che attraversa le burrasche della storia dell’America Latina nell’ultimo trentennio del ‘900.

Per questo può accadere che le si infiammino le tonsille e la sua voce perda di tono, tuttavia insieme a lui, che è il suo compagno a distanza, tiene vivo il loro amore e l’amicizia attraverso la corrispondenza. Si mandano lettere da una capo all’altro del mondo, usando le parole come le liane della foresta per costruire ponti e passaggi.

E così mi piace un titolo come Il libro della pioggia di Martino Gozzi. Apro il libro e accanto al titolo trovo l’immancabile appunto preso con la matita, trovo la pagina o le pagine in cui esso compare. Qui è verso la fine ed è la chiave di volta con cui l’autore esce allo scoperto e dà spiegazione del suo libro, della storia di un’amicizia e di una perdita che lo hanno segnato ma stanno ancora dando senso al carico dell’esistenza.

Penso infine, tra i tantissimi, ad alcuni titoli sulla guerra civile in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 raccontata attraverso la vita delle persone, di chi ha combattuto stando da una parte o dall’altra della Storia.

Ho letto di recente  Se il fuoco ci desidera di Alessandro Carlini e Bambino di Marco Balzano, due libri uniti dalla scelta del periodo storico ma divisi sugli altri fronti.

Il primo è la ricostruzione documentata e rigorosa della vita del patriota Renato Del Din, il primo partigiano della Carnia morto il 25 aprile 1944 durante un’azione contro la caserma fascista di Tolmezzo. Il fuoco che lo chiama è quello dell’azione per liberare la patria dal nazifascismo, come chiarisce il sottotitolo.

Il secondo narra la vita di Mattia Gregori, che negli stessi anni è entrato tra le file degli squadristi triestini e si è distinto per la violenza delle sue azioni. Il soprannome che gli è stato dato per il suo viso da fanciullo, “Bambino” appunto, forma un ossimoro con la crudeltà che gli brucia dentro. Dei personaggi in genere ma prima di tutto di lui l’autore dice: “Sono frutto della mia fantasia”.

Sulla categoria del verosimile che è pilastro di tanta letteratura non è qui il caso di scrivere: la letteratura ha i suoi modi e anche i suoi inganni per accostarsi alla realtà e soprattutto per condividerla con i lettori e farne dialogo.

Importa sottolineare lo svelamento che la lettura dei due libri riserva rispetto al titolo.

Il fuoco che accende Renato era ipotizzabile attraverso il sottotitolo, ma poteva rivelarsi non solo di questo tipo, epico, che lo rende soldato prima del Regio Esercito e poi della Brigata partigiana Osoppo.

Poteva includere il fuoco della passione amorosa che ci ha consegnato la più solida tradizione letteraria della lirica nonché della prosa, come accade al partigiano protagonista di Una questione privata di Beppe Fenoglio.

Di Bambino che dire? Già le pagine iniziali mettono al loro posto il senso che ha: è un nome di battaglia, come Anselmo lo diventa per Renato sulle montagne friulane. Ma chi non aveva pensato a un libro sull’infanzia? Magari scritto con la consulenza di Paolo Crepet?

Nota bibliografica:

  • Alfredo Bryce Echenique, La tonsillite di Tarzan, Guanda, 1999
  • Martino Gozzi, Il libro della pioggia, Bompiani, 2023
  • Alessandro Carlini, Se il fuoco ci desidera. Breve vita di Renato Del Din, che l’8 settembre 1943 scelse la libertà, UTET, 2024
  • Marco Balzano, Bambino, Einaudi, 2024
  • Beppe Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, 1987

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/

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