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Squilla il telefono, è l’ora di un sacrosanto riposino postprandiale, ma soprattutto è l’ora del mascalzone il quale ha deciso di farmi morire incazzato: è l’uomo o la signorina alla corte dei grandi speculatori, tardi epigoni e sfruttatori di Bell e di Meucci, è il soldato del call center al quale è stato comandato dal padrone di chiamarmi tutti i giorni, alle ore del pasto e della cena, per cercare di rubarmi al concorrente di telefonia, ovvero di farmi abbandonare la società che mi fornisce l’energia elettrica, e poi quella del gas, e poi quella dell’acqua. Il fatto è che la chiamata telefonica viene fatta in automatico, cioè il mio numero viene inserito nel computer, il quale come tutti i computer non capisce niente, lui esegue, e alla tal ora di tutti i giorni chiama, anzi mi chiama per nome: “il signor Gian Pietro?” e io tutti giorni, mattina e sera, mentre sto infornando un boccone quasi sempre soltanto di formaggio, inutilmente gli urlo “non c’è, è morto!” Torno a tavola , non piango perché mi hanno insegnato che un uomo non piange (chissà perchè), ma il nervoso mi impedisce di deglutire, tanto che ho pensato di lanciare questa mia dieta come cura dimagrante, sostituendola alla dieta mediterranea troppo calorica. Sto esagerando, ma non tanto, in questo fenomeno della telefonia che sta mangiando il cervello della gente, Ferrara non è diversa da qualsiasi altra città italiana o straniera, tutti hanno il telefonino in mano, i rifugiati eventualmente non mangiano, ma il telefonino lo usano di continuo e le prossime generazioni si prevede nascano con una sorta di apparecchio telefonico inserito nell’orecchio…
Mi sono lasciato trasportare dal mio odio per il telefono, chiedo scusa, torno alla nostra città la cui bellezza (sto parlando seriamente) a volte mi toglie il fiato: quando in primavera, prima ancora che fioriscano i tigli inondando del loro stordente profumo la città, prima di quiesti giorni magici, dicevo, se sono triste prendo l’adorata bicicletta e vado: via Scienze, via Saraceno, Borgo di Sotto, Santa Maria in Vado, palazzo Schifanoia. In Borgo di Sotto, di solito, mi fermo un attimo davanti all’Oratorio dell’Annunziata, ovvero della Morte, un gioiello quasi sconosciuto alla maggior parte della cittadinanza, con opere, tra gli altri, del Bastianino, un gioiello lasciato alla rovina, qualsiasi altra città ne avrebbe fatto luogo di culto turistico. Non chiedete questo sforzo a Ferrara, fa già molto a ricordarsi di Palazzo Schifanoia e della Sala dei Mesi, che tanti anni fa definii “la cappella Sistina della laicità”.

Oltrepasso corso Giovecca, le antiche immagini si accumulano nel cervello , ma a me sembrano sempre nuove. E commoventi. Ecco piazza Ariostea, poi, svolto giù per via delle Erbe e mi immetto in quella zona agricola credo unica al mondo, in mezzo alla città un’oasi dove si coltivano mele, pere, albicocche, pomodori, in un batter d’occhio sono in mezzo alla campagna padana: prendo lo stradellino che porta alle Mura, qui un tempo chiamate i “camatùn”, e proseguo fino alla “Casa del boia”, da dove lo sguardo percorre via Piopponi e via Ercole d’Este che Lord Byron definì, senza sforzarsi nell’esagerazione, la strada più bella del mondo. Dalla casa del boia si domina un bel pezzo di città, ma non si arriva a vedere, per fortuna, il palazzo degli Specchi, uno degli scandali edilizi (e non soltanto) più imbarazzanti dell’ultimo secolo, un rottame di cui la città non ha mai capito il possibiile uso. Ma, aggiungo, non imbarazzante quanto il nuovo ospedale Sant’Anna, costruito sulle sabbie mobili, troppo lontano dalla città, soprattutto per i suoi clienti più anziani e per i loro parenti, con e senza auto. Per chi ha la macchina diventerà un salasso. E gli altri in autobus, senza fretta: ma si sa, chi va all’ospedale è soltanto per una gita di piacere. Avevano detto: ferraresi tranquilli, andrete all’ospedale con la metropolitana di superficie. Mettimoci il cuore in pace: Sant’Anna non fa questi miracoli, anche se è riuscita a moltiplicare i miliardi, moderni pani e pesci (anche sotto forma di parcheggi a pagamento) di Gesù Cristo.

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Gian Pietro Testa


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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