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di Maurizio Olivari

Si fa presto a dire “vita da cani”, “mi trattano come un cane”, “sto bene come un cane in chiesa”… Ma di noi felini, gatti di strada o gatti d’appartamento, perchè non parlate?
Allora parlo io: micino di 5 mesi di vita salvato dai volontari di un gattile di Bologna. Salvato, dicevo, da una situazione a dir poco triste e pericolosa… Sono stato “offerto” a una ragazza in cerca di un amico che non tradisce, che ti aspetta e ti accoglie al tuo ritorno con un miagolio del tutto particolare che vuol dire “ben arrivata”.
Per farmi entrare in famiglia, la ragazza ha dovuto superare il parere contrario della nonna e le incertezze del nonno, ostacoli non da poco. Alla fine però, anche grazie all’appoggio della mamma, la questione si è risolta con l’accettazione unanime del sottoscritto.
Le perplessità della nonna erano grosso modo queste: “alla fine sarò sempre io ad accudirlo… ci rovinerà il divano, le tende, i tappeti… ricordatevi che gli animali vanno mantenuti bene, altrimenti bisogna lasciarli dove sono…” eccetera, eccetera.
In effetti, devo ammettere che tutte queste osservazioni erano più che legittime!

Sono rosso e bianco (si dice di noi gatti rossi che siamo i più terribili…), sono molto carino e anche assai curioso.
Sono giunto nella nuova casa rinchiuso dentro un orribile contenitore modello Alcatraz. Appena arrivato, il nonno, la nonna e la mamma, un vero comitato di benvenuto, mi hanno accolto cominciando a chiamarmi subito col nome che avevano deciso dopo discussioni durate giorni e giorni: Artù.
Ma che razza di nome! Avrei voluto tornarmene al gattile… Ma le continue coccole, la lettiera sempre pulita, la bella cuccia morbida e calda e, ovviamente, i croccantini deliziosi, m’hanno convinto che, dopotutto, vivere in quella casa ne valeva la pena. Anche a costo di farsi chiamare Artù!
All’inizio mi fecero vivere praticamente relegato in una stanza, appunto per evitare che combinassi i guai che avevano tanto temuto prima di decidere d’accettarmi. Ma loro non sapevano quanto può essere curioso e veloce un micio, così, appena trovavo un pertugio in cui infilarmi, me ne andavo in giro per la casa senza farmi notare da nessuno.
E così tutti a cercarmi, “Artù, Artù!” chiamavano senza ottenere alcuna risposta. Io, peraltro, mi nascondevo finchè non decidevo di farmi scoprire. E quando la ragazza finalmente mi vedeva, esclamava: “tana Ugo!”
Trovavo questo termine bellissimo. Gli umani lo usano da bambini quando giocano a nascondino.
Poi il nome Ugo mi piaceva un sacco, e siccome rispondevo più volentieri a questo richiamo, tutti quanti si decisero a cambiarmi il nome da Artù a Ugo, per mia buona sorte.

Ogni giorno, all’ora di pranzo, avverto puntualmente l’incertezza generale su quale scatoletta aprire, e così, con occhi imploranti, rimango ad ascoltare il consueto dibattito sulla scelta tra pollo e formaggio, tonno e patate, tonno e verdure… Finchè poi non decido di attaccarmi con le unghie ai polpacci della nonna miagolando come un lottatore di sumo, solo allora decidono di darmi il cibo che mi spetta. Per il resto della giornata so di dovermi accontentare di un pugno di croccantini al gusto di formaggio, talmente duri da mettere alla prova la mia dentatura di felino.
Ricordo che una mattina la nonna arrivò tutta trionfante, mi chiamò e m’invitò a mangiare una nuova prelibatezza (a suo dire) che aveva trovato in offerta promozionale al supermercato. La versò nel mio piattino, io mi avvicinai, l’annusai, provai un boccone… e feci fatica a finirlo. Decisi così di ignorare quel piattino e tornai a mangiare i miei soliti croccantini.
La nonna, delusa, non capendo il motivo del mio gesto, prese la scatoletta aperta e si mise a leggere meglio l’etichetta. S’accorse così che era cibo per cani. Se solo sapessi l’idioma umano le avrei detto che “chi non legge il cartello, non mangia il vitello“. Però poi mi chiese scusa non so quante volte, senza sapere che in realtà l’avevo subito perdonata.

Sono piccolino e naturalmente mi piace giocare, però senza esagerare.
I primi tempi mi ero quasi convinto d’essere ospite di una famiglia di circensi, dovevo inseguire palline di ogni genere, di gomma, di plastica, sonore e silenziose, e io ce la mettevo tutta per rincorrerle e farle rotolare sotto i mobili, così da non trovarle più.
La ragazza, pensando che ai gatti piace cacciare i topolini, mi ha procurato un topino di stoffa che, una volta caricato a molla, se ne va in giro per casa. Ovviamente, io dovrei ricorrerlo come se stessi cacciando nella savana africana, tutto questo per far divertire la mia famiglia umana.
Vabbè… Dopo due rincorse l’ho fatto finire sotto il frigorifero!
Una cosa però mi diverte molto: la scalata delle tende. La faccio in ogni camera che trovo aperta, sia sulle tende di cotone sia su quelle di seta. Ma quasi sempre arrivo fino a metà salita, poi devo lasciare la presa. Puntuale, infatti, mi becca la nonna che mi urla di scendere subito e mai una volta l’ho sentita dire “Tana Ugo”.

La casa dove abito è bella e accogliente, per carità, tuttavia ha un difetto: ha cinque balconi con le balaustre fatte di mattoni e senza nessuna fessura per vedere il mondo che ci sta sotto. E, in proposito, devo confessare che tempo fa la mia curiosità mi ha giocato un brutto scherzo. Un giorno, infatti, ho raggiunto il parapetto del terrazzo; sono riuscito a non cadere giù perché la larghezza del suo bordo e la mia non comune agilità sono state sufficienti a farmi restare in equilibrio. Dopo quella volta, ho preso talmente confidenza con davanzali e parapetti che ogni santo giorno saltellavo da un terrazzo all’altro come niente fosse. Queste mie performances, però, iniziarono a creare una grande apprensione in tutta la mia famiglia, assai preoccupata per la mia incolumità, dato che una caduta dal secondo piano equivaleva a un volo di circa una decina di metri.
Ebbene, quello che i miei umani temevano avvenne una sera: era buio e, non so come, sbagliai il salto e caddi giù. Adesso non so dire come ci riuscii, ma il caso volle che atterrai nel giardino sottostante senza farmi nulla, se non prendermi un dannato spavento.
Ero molto impaurito e mi misi a miagolare a squarciagola, almeno fino a quando uno della famiglia non si accorse della mia assenza in casa e, allarmato, corse fuori dal palazzo a cercarmi. Quando lo vidi avvicinarsi, non sapendo se voleva salvarmi o punirmi con una sculacciata, non mi feci prendere e scappai. Poi ho pensato:”Ma dove vai Ugo? Lasciati prendere… Molto meglio una sgridata che perdere tutte le comodità della tua casa di umani…”
Così alla fine, per la soddisfazione del mio familiare umano, mi sono lasciato prendere. E credo che non mi avventurerò mai più sui davanzali dei balconi, anche per evitare di far preoccupare la mia premurosa famiglia, ovvio!

Ma… sento aprire la porta dell’ingresso: è la nonna che torna dalla spesa del mattino.
Le vado incontro facendo le fusa e inizio a miagolare guardando il frigorifero. Lei capisce che è ora del mio pranzetto e mi accontenta subito porgendomi un bel piattino con tonno e gamberetti. Scusate, ma adesso vado proprio a mangiare.
Tanti cari saluti da Ugo, con l’augurio, a tutti voi mici che mi leggete, che possiate trovare una famiglia come la mia.
Miao, miao.

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Redazione di Periscopio

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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