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di Piero Stefani

Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, ha recentemente pubblicato un volume di non grande formato ma comunque contraddistinto da un numero di pagine non esiguo (per l’esattezza 318). Il titolo e le pretese sono ambiziose, “Il cammino della Chiesa. Fondamenti, storia & problemi” (Ares, Milano 2015). Nella prefazione il cardinal Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, giudica il testo all’altezza della bisogna, visto che non esita a qualificarlo un “capolavoro” (p. 7).
Il libro è costituito da una introduzione a cui seguono tre parti: “Fondamenti & valori della tradizione cristiana”, “Duemila anni in breve”, “Problemi di storia della Chiesa” (in cui si affrontano temi particolari “Le crociate: un movimento cristiano”, “Galileo & la Chiesa”, “La Rivoluzione francese: una svolta epocale”, “Il ‘Sillabo’: un documento da riscoprire”, “Pio XI & Pio XII di fronte ai totalitarismi”). Le tre parti sono connesse tra loro in modo molto coerente: la prima getta le fondamenta, la seconda costruisce l’edificio storico generale, la terza si occupa di alcuni dei temi più esposti ai venti della polemica.

Siamo di fronte a un volume di teologia, di ecclesiologia, di storia o di apologetica? La risposta è semplice: si tratta di un testo sia di teologia, sia di ecclesiologia, sia di storia, sia di apologetica. Almeno appare così nelle intenzioni dell’autore; dal canto suo il lettore si muove invece con un certo disagio all’interno di questo quadrilatero. Avviene così perché egli comprende, anche nel caso in cui non ne condivida la linea, che il libro tratta di teologia, ecclesiologia e apologetica, mentre si trova in imbarazzo nel capire dove collocare la storia. Per quanto sia il titolo di una disciplina accademica (il che è, di per sé, spia di una povertà culturale tipicamente italiana), dal punto di vista storiografico non esiste alcuna “Storia della Chiesa”. Fin dal sorgere delle prime comunità cristiane il plurale è d’obbligo. Per un approccio storico nel lungo arco di tempo che va dal I al XXI secolo ci sono state e ci sono sempre molte Chiese e mai la Chiesa. Dall’origine e fino a oggi le comunità dei credenti in Gesù Cristo sono sempre state molte. Nell’orizzonte storico è gioco forza parlare solo di “storia della Chiese”, oppure di storia della Chiesa cattolica romana o ariana o nestoriana o copta o armena, o greco-ortodossa, o anglicana o luterana o calvinista e così via per centinaia di casi. Eppure nel libro di Negri il termine ‘Chiesa’ è usato sempre al singolare; inoltre non è mai seguito da alcuna determinazione (compreso l’aggettivo ‘cattolica’). Il fatto dovrebbe essere sufficiente per collocare il volume al di fuori delle scienze storiche. Da dove nasce quindi la pretesa dell’autore di star facendo storia (anzi l’autentica storia)? La ragione c’è ed è spiegata con chiarezza dal testo.
L’espressione “storia della Chiesa” contiene un genitivo. Come è noto, il genitivo può essere di due tipi: oggettivo e soggettivo. Una lettura piana della locuzione lo intenderebbe in senso oggettivo: tra i vari oggetti della ricerca storica ve ne è uno dedicato alla Chiesa (o meglio alle Chiese). Per comprendere l’approccio di Negri occorre invece fare propria la seconda alternativa: il genitivo è soggettivo. La storia della Chiesa è la coscienza che la Chiesa ha di se stessa nel corso del suo sviluppo temporale. Fermarsi qui sarebbe però ancora poco. Siccome la storia è guidata dall’avvenimento posto al centro di essa, l’incarnazione del Figlio di Dio, evento attestato e trasmesso dalla Chiesa (al singolare), solo la Chiesa ha nelle sue mani le chiavi per interpretare la storia: “la storia della Chiesa è ormai l’unica storia possibile perché, con l’avvenimento cristiano, la storia ha conosciuto il suo compimento” (p.47). Non stupisce quindi prendere atto che, secondo Negri, l’ultimo grande documento della tradizione storiografica cattolica sia stato il seicentesco Discorso sulla storia universale di Jacques Bénigne Bossuet (p. 46).
“La conoscenza storica è la conoscenza di un presente, operata da un soggetto che vive nel presente, che legge, a partire dalla propria sensibilità e dalla propria cultura, il passato e ne trae forza per approfondire la situazione attuale e per disporsi a creare il futuro” (p. 43). Nessuno storico degno di questo nome si identificherebbe con siffatta definizione della propria disciplina. Va da sé che anch’egli si renderebbe conto della presenza nel suo tentativo di ricostruire il passato (la costruzione del futuro non è compito della storia) dell’influsso della “propria sensibilità” e della “propria cultura”, e appunto in ciò individuerebbe una delle ragioni che rendono relativo e perfettibile, ma non per questo vano e insignificante, il sapere storiografico. Al contrario, pretendere di utilizzare una certa forma di conoscenza storica per comprovare il senso globale della storia (“la storia della Chiesa è ormai l’unica storia possibile…”) significa – per ricorrere a un aggettivo di norma assegnato da Negri ai suoi avversari – compiere un’operazione ideologica. La comunità dei credenti celebra il senso complessivo della storia come una componente peculiare della sua fede, tuttavia quando i cristiani si cimentano con storiografia devono aderire, al pari di tutti gli altri, alle regole proprie di quella disciplina. La confusione tra i due piani è impropria e tutt’altro che priva di ricadute sul modo di atteggiarsi della Chiesa nei confronti della società. Per averne una riprova basta guardare all’azione pastorale di Mons. Negri.

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L’obiezione che il professor Stefani muove a monsignor Negri circa la definizione di ‘conoscenza storica’ non mi trova del tutto d’accordo. Si può certo dissentire rispetto al punto di vista del vescovo, ma affermare che “nessuno storico degno di questo nome si identificherebbe con siffatta definizione della propria disciplina” mi sembra un po’ forte. In fondo, affermare che chi studia la storia lo fa sulla base della propria sensibilità è quasi tautologico, mentre l’intenzione che egli ascrive al vescovo (di fondare su questo presupposto l’idea che “la storia della Chiesa è ormai l’unica storia possibile”) non trova necessario riscontro nel brano citato (magari ce l’ha nelle 318 pagine che l’esegeta avrà minuziosamente analizzato).
Ma questo è del tutto inessenziale. Il punto è un altro.

Piero Stefani, uomo illuminato, studioso autorevole e cattolico non dogmatico, svolge una dotta analisi dell’ultimo libro pubblicato dal vescovo di Ferrara ed esprime severe critiche. Ma tutto sul piano di una raffinatissima esegesi: ne godranno i 15 lettori dell’opera di Negri e nessun altro.
Eppure, quasi quotidiane sono le occasioni d’intervento offerte dal vescovo a chi – anche nella Chiesa – non condivide le sue idee. Dagli intellettuali che dissentono ci aspetteremmo parole chiare e un aperto moto di ribellione civile. Sullo spazio pubblico grava invece un imbarazzante silenzio.
(sergio gessi)

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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