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Quell’albergo era “sotto stretta sorveglianza”, così una fonte ufficiale riferendosi all’Hotel Intercontinental di Kabul trasformato in campo di battaglia. Sembra una battuta ma non lo è. E’, invece, una delle innumerevoli facce del caos imperante da quelle parti. Sabato notte parte di quel caos si è manifestato all’interno dell’Hotel Intercontinental, dove i talebani hanno dato l’ultimo esempio della loro fatale determinazione facendosi saltare volontariamente per aria e riempiendo di raffiche stanze e corridoi. Alla fine, venuto giorno, c’è chi ha contato 22 uccisi più quattro aggressori morti (ma il numero rimane incerto).

In Occidente (è da lì che vengono gli anti-talebani) è dilagato un misto di sgomento e di stupore, quasi si fosse scoperto che il terrorismo infesta ancora i nostri incubi. Sai la novità. Nella settimana precedente l’assalto all’Hotel Intercontinental le cronache afghane, totalmente ignorate, avevano certificato l’eliminazione di una novantina di talebani e la scarcerazione di altri 75, ex seguaci di quell’anima nera della guerra civile degli anni Novanta di nome Guldbuddin Hekmatyar, classificato “terrorista globale”. Hekmatyar era stato a sua volta scagionato dopo mesi di trattative che avevano garantito a lui e a 2.200 dei suoi l’impunità per i crimini compiuti. Una simile manica larga potrebbe sembrare un avvio di pacificazione nazionale ma non lo è perché la ribellione non ha ridotto i suoi cruenti ritmi letali.
Non è servita a niente neanche la spavalda incursione del vicepresidente Mike Pence, arrivato a Kabul per comunicare che gli americani non se ne andranno dall’Afghanistan finché non l’avranno liberato dal terrorismo. Ossia mai. A conclusione del suo fervorino Pence aveva comunque ringraziato le autorità locali per “la collaborazione nel mantenere la sicurezza”. Collaborazione per la verità fin troppo stagionata avendo imboccato il diciassettesimo anno di anzianità e servita, come scritto dal memorialista americano Philip Caputo, a bombardare “non solo i ribelli ma anche gli ideali americani”. E poi c’è la questione della sicurezza, che Pence ha evocato con disinvoltura. Nessuno sa dove stia di casa, di certo non in Afghanistan e tantomeno a Kabul. Però le truppe americane non solo vi restano parcheggiate, ma sono in crescita (sono già in 14.000). Probabilmente si stima sconveniente andarsene da un Paese con oltre un trilione di dollari di minerali non sfruttati e con la maggiore produzione mondiale di eroina. E poi c’è la questione Cina-Russia- Iran, tre Paesi che i ‘signori della guerra’ di Washington considerano nemici e che stanno appena oltre il confine afghano. Kabul può dunque costituire una magnifica base di partenza per sovvertirli. Per non contare l’affluenza in Afghanistan dei miliziani dello Stato Islamico cacciati dai fronti iracheno e siriano. Mosca già ne valuta in 10.000 individui la loro presenza. Fanno di tutto per imporsi all’attenzione, come se coltivassero l’intenzione di giustificare il proposito degli antiterroristi occidentali di mettere radici nella regione. Nel mese di dicembre il terrorismo ha infatti provocato un paio di centinaia di vittime, quasi la metà delle quali (85 per l’esattezza) provocate dai pro-Califfo rimasti senza Califfo.

Apparentemente meno eccitato di molti suoi colleghi il generale John Nicholson, comandante delle truppe americane in Afghanistan, ha ammesso che la situazione è “in stallo” e che le possibilità di vittoria vanno valutate in base alle condizioni che verranno prospettandosi e non sul tempo. Con ciò riprendendo quasi alla lettera un vecchio detto locale secondo il quale gli invasori avranno anche l’orologio, ma chi li combatte ha il tempo dalla sua. L’esercito del generale Nicholson arrivò in Afghanistan con l’idea di “impalare” quel barabba di Osama Bin Laden. Fu il capo degli antiterroristi della Cia, un tale Cofer Black, a usare quell’espressione prima di prendere l’impegno di “portare la testa di Bin Laden al presidente”. E invece dovette dedicarsi ad altro, essendo l’obiettivo trasfiguratosi nell’importazione di una democrazia da scaffale di supermercato inscatolata a Washington. Un altro buco nell’acqua, tanto da costringere uno dei direttori della Cia messo a forza in pensione, il genenerale David Petraeus, a piangersi addosso lamentando che né gli Stati Uniti né la Nato avessero vinto il terrorismo. E non si riuscirà certo a vincerlo con i 3.000 soldati aggiuntivi che Trump ha deciso di mandare portando a 14.000 il totale. Quest’altra spedizione è stata chiamata New War Strategy, in realtà niente di più vecchio.
Per spiegarla al presidente afghano Ashraf Ghani arrivò inatteso a Kabul il segretario di Stato americano Rex Tillerson, già autore di una dichiarazione curiosamente enigmatica, stando alla quale sul campo di battaglia afghano non vinceranno né i talebani né gli Stati Uniti. Dopo 16 anni di guerra, e chissà quanti altri ancora, sarebbe questo il finale di partita immaginato a Washington. Naturalmente i talebani la pensano in altro modo e ne avevano già informato il segretario della Nato Jens Stoltenberg, che aveva annunciato più finanziamenti (un miliardo di dollari l’anno fino al 2020) “a sostegno dell’Afghanistan”. Dovrà prepararsi a una lunga guerra, gli avevano detto.

Terrorismo di talebani e di pro-Califfo a parte, in Afghanistan anche la Cia avrebbe avviato un programma di squadre clandestine per decimare i quadri della ribellione. Tattica forse già impiegata nel Vietnam che non produsse risultati apprezzabili. Adesso, cocciutamente, la si rispolvera. Non è l’unico riferimento alle sciagure del Vietnam. L’altro è la droga. L’85 % dell’eroina e della morfina prodotta nel mondo viene dall’oppio afghano procurando utili per tre miliardi di euro l’anno. Poi c’è il resto, che in un rapporto Onu del 2009 era così descritto: “Ogni anno muoiono più persone a causa dell’oppio afghano che per qualsiasi altra droga: circa 100.000 in tutto il mondo”. In Afghanistan in particolare “il numero di persone dei Paesi Nato decedute per overdose di eroina è cinque volte maggiore del numero di truppe Nato perdute dall’inizio delle operazioni militari”. La guerra come droga e la droga per fare la guerra.

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Gianni Flamini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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