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La guerra viene usata per riaffermare a casa nostra il modello neoliberista e diseguale, in vista della prossima austerità. Anche per questo la lotta per la pace è un’assoluta priorità

Mi stavo accingendo a mettere insieme idee e materiali relativi alla NADEF (Nota di Aggiornamento Documento Economia e Finanza) approvata dal governo nei giorni scorsi e su cui si basa la manovra di politica economica e sociale che viene presentata in questi giorni, quando mi è sopraggiunto una sorta di blocco, di sentimento di inadeguatezza rispetto al fatto di concentrare lì la mia attenzione. Infatti, in quegli stessi momenti si dispiegava l’ingiustificabile attacco terroristico di Hamas al popolo israeliano del 7 ottobre, una vicenda così grave e pesante, destinata a cambiare i destini del mondo.

Dopo la guerra tra Ucraina (e non solo) e Russia e dopo gli accadimenti della guerra in Nagorno Karabakh, con la persecuzione nei confronti degli armeni, ora la guerra tra Israele e Hamas, con l’aggressione al primo e il rischio di un inammissibile genocidio nei confronti dell’intero popolo palestinese, diventa sempre più evidente che la paventata Terza Guerra mondiale a pezzi sta prendendo forma.

La guerra torna ad essere, al contrario del ripudio ben chiaro nella nostra Carta Costituzionale, strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e mezzo di risoluzione delle controversie internazionali

La guerra che, anche da noi, si alimenta di uno spirito bellicista veramente impresentabile e foriero di limitazione delle libertà democratiche.
Non solo non c’è alcuna analisi sullo stato delle relazioni internazionali, su dove sta andando il mondo, ma si prova a creare un clima che va nella direzione suindicata, affidandosi, da parte di molti commentatori interessati, ad argomentazioni animate da un puro approccio vendicativo, rispolverando la logica perversa dell’ occhio per occhio, dente per dente.
Uno per tutti, il neodirettore di Libero Mario Sechi, da cui ci è toccato sentire che non è possibile distinguere tra Hamas e il popolo palestinese e che è inevitabile che la risposta israeliana comporti l’uccisione di moltissimi civili palestinesi. Oppure, abbiamo assistito all’incredibile contestazione del sindaco di Milano Sala, perché ha osato esporre al Municipio la bandiera della pace assieme a quella di Israele, per non parlare della proibizione da parte di Macron in Francia delle manifest
azioni a sostegno della Palestina.

La realtà è che il dispiegarsi della guerra, come è sempre successo nella storia, diventa uno strumento formidabile per restringere la democrazia e scaricarne il prezzo sui ceti più deboli e poveri. Qui sta il nesso tra realtà della guerra, attacco alle libertà democratiche e proseguimento e accentuazione di politiche con caratteristiche classiste e antipopolari. Perché è questo che si sta provando a mettere in campo anche nel nostro Paese.

Intanto, le scelte del governo Meloni, ma anche gli orientamenti dell’Unione Europea, stanno riportandoci progressivamente ad una “nuova austerità”.
Alla faccia di chi aveva esaltato la svolta epocale del Recovery Plan supportato dall’emissione di debito europeo, l’Unione Europea con il 2024 darà vita ad un nuovo Patto di Stabilità e crescita. Il suo parto non è agevole, esistono allo stato discussioni aperte sulla maggiore o minore rigidità e cogenza da dare alle sue regole, che saranno senz’altro più lasche del Patto di Stabilità e Crescita esistente prima della pandemia, ma che, ancora una volta, ruoteranno attorno alla priorità di ridurre il debito pubblico e, soprattutto, di diminuire la spesa per investimenti e quella corrente. Quella spesa, per intenderci, che sostiene lo Stato sociale, e cioè in primo luogo sanità, previdenza e istruzione.

Il governo italiano di destra, come del resto il precedente governo Draghi, e non solo, si sta prontamente adeguando a questa nuova impostazione, visto che ne condivide la sostanza. Infatti, la NADEF, e la manovra che ne seguirà, segue quel solco: il saldo della spesa primaria ( in sostanza, il rapporto tra spesa pubblica corrente e per investimenti e entrate correnti) dovrebbe passare da un disavanzo dell’ 1,5% del 2023 ad un avanzo dell’ 1,6% nel 2026. La spesa corrente dovrebbe diminuire dal 46,7% del PIL nel 2023 al 44,9% nel 2026 e, nonostante questo, il debito pubblico rispetto al PIL si manterrà sostanzialmente costante, attorno al 140%.
Risultati, questi, che significano, appunto, un forte taglio della spesa sociale, dopo che, peraltro, già nel 2023 abbiamo già visto all’opera l’anteprima di questa nuova austerità: per il tramite dell’inflazione calcolata al 5,8% la spesa pubblica reale è già scesa del 5%, con i redditi da lavoro pubblico dipendente al 5,1% e le prestazioni sociali al 3,7%.

Va anche notato che gli obiettivi per i prossimi anni, che comportano già di per sé un serio peggioramento nelle condizioni dei ceti più deboli e poveri, si basano su previsioni che difficilmente potranno essere realizzate: le stime di crescita del PIL sono sovradimensionate, come da ultimo evidenziato da Bankitalia, le spese per gli interessi, al contrario, rischiano si essere sottostimate, la previsione di entrate per ulteriori privatizzazioni (circa 20 miliardi di € da qui al 2026), al di là della scelta non condivisibile, sono molto probabilmente irrealistiche.
Tutto ciò sarebbe appena sufficiente a coprire l’abbassamento del cuneo fiscale per i lavoratoti dipendenti già in vigore con il 2023 e il ridisegno delle prime 2 aliquote IRPEF, e, si badi bene, solo per il 2024. Insomma, siamo in presenza – ed è già un giudizio ottimistico – di una manovra che è, contemporaneamente, di attacco alle condizioni di vita dei ceti popolari e di puro galleggiamento, spostando poco più in là nel tempo il redde rationem del ritorno ad una pesante austerità.

Qui entra in gioco la nota strategia di evocare il nemico esterno, che siano i migranti, o la crisi energetica o ancora la guerra che aleggia per tutto il mondo. E magari,  se le elezioni europee non daranno l’esito sperato dalla destra, anche l’ “Europa matrigna”. Bisogna poi individuare anche i nemici interni, in particolare, oltre all’opposizione sociale e politica, la magistratura e la stampa, che vanno entrambe ricondotte a più miti consigli e ad una loro subalternità al potere esecutivo.
Il fallimento che arriverà delle politiche economiche e sociali ispirate al neoliberismo, da cui non si discosta neanche la maggioranza di destra, deve essere in qualche modo occultato e imputato ad altri fattori e, per quanto possibile, arginato facendo leva sul rilancio di un’ideologia
e di una pratica autoritaria e nazionalista, di un’aggiornata – ma neanche tanto- rispolveratura del “Dio, Patria e Famiglia” di infausta memoria.

Naomi Klein, Shock Economy: ascesa del capitalismo dei disastri (Bur 2008)

Il punto di fondo, in realtà, è che, dopo la Grande Crisi del 2007-2008 che ha segnato la fine dell’illusione neoliberista e della globalizzazione trainata dal mercato e chiusa la fase che aveva promesso crescita della ricchezza, peraltro in modo molto diseguale, la prosecuzione di quel medesimo modello neoliberista, visto che non poteva basarsi su un presunto consenso, si è avvalso della paura e delle preoccupazioni indotte nelle persone: il rischio del default nel 2011-2012, la crisi pandemica, e oggi la guerra che si diffonde nel mondo.

E’ l’idea della “schock economy”, ben descritta negli ultimi anni da Naomi Klein, che mina la democrazia e vira pericolosamente verso l’autoritarismo. È quel che vediamo diffondersi nei paesi del civile Occidente.

Non è un destino ineluttabile. Ci sono, per fortuna, molte forze ed energie anche nella nostra società che intendono contrastare questa deriva e proporre un’alternativa di modello sociale e produttivo. 

Da ultimo, l’abbiamo visto a Roma il 7 ottobre, con la straordinaria manifestazione promossa dalla CGIL e da oltre 100 Associazioni per difendere e attuare il dettato costituzionale, per affermare pace, diritti e lavoro.

Occorre, però, avere presente che, nel nuovo contesto di oggi, la lotta per la pace rappresenta una assoluta priorità, e che essa va coniugata con la lotta per la democrazia e per l’affermazione di scelte politiche basate sulla ricostruzione dell’eguaglianza sociale.
Questo oggi è un passaggio decisivo, che si deve mettere in campo da subito e su di esso raccogliere una vasta coalizione sociale e una forte mobilitazione delle persone, cui far seguire un’adeguata rappresentanza politica.
Certamente non mancheranno le occasioni per tornarci sopra, proprio perché lo impone la necessità dei tempi presenti.

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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