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Trovare una poesia alla fermata dell’autobus: mi è accaduto pochi giorni fa in via Carlo Mayr. Una poesia disposta a offrirmi un viaggio gratuito e inedito tra le sue strofe. Ero, senza saperlo, a una fermata poetica, utile a sospendere il tempo e a intraprendere un’esperienza inusuale. Un po’ come essere in sosta al binario 9 e 3/4 di Harry Potter da cui parte l’Espresso per Hogwarts.
In questo caso la destinazione era ben più prossima: una poesia errante appesa nella sua protezione di plastica al palo della fermata di linea, che prometteva di restare con me se l’avessi letta. Di solito alle fermate degli autobus si trovano appiccicate listarelle di carta con un numero di cellulare per chiamare un imbianchino o uno svuota cantine. Non si trovano le poesie.

Ho scoperto che a seminare queste poesie è un poeta errante che si fa chiamare Ma Rea, sembra un personaggio uscito dalle favole per incantare la città e le sue persone. Ha coniato lo ‘stendiversomio’. Lui spiega che si tratta di un neologismo nato dalla fusione tra stendibiancheria e “versuro”, che in dialetto veneto significa aratro. In questo caso l’aratro smuove le zolle dell’ispirazione per produrre versi da appendere allo stendibiancheria perché si asciughino nell’attesa di capire se sono pronti per essere immessi all’interno dell’organismo cittadino.
Il problema è che la poesia non è di quelle da baci Perugina, usa e getta. La poesia alla fermata poetica è di uno che entra nella tua solitudine con la pretesa di farti parlare con te stesso. Ti prende la mente e va oltre il tempo di un’attesa. Non è qualcuno che ti vuole vendere qualcosa, non è uno che pretende di dialogare con te, desidera solo che sia tu a dialogare con te stesso, e neppure pretende di conoscere le parole che ti scambierai. È così che ti fa dono di provare la piacevole sensazione di non essere più uno fra i tanti alla fermata dell’autobus ad attendere un autobus, non sei più uno in un non luogo, tu sei uno che ora si trova su un marciapiede in una via in cui qualcuno ha lasciato una poesia per te, dunque, se per caso te ne eri dimenticato, sei vivo e hai una identità, sei proprio tu: ora sei contestualizzato.

Non capita tutti giorni che qualcuno ti chiami all’appello del presente. Qualcuno che ha pensato a te, a uno sconosciuto che da utente della città e delle sue infrastrutture, diviene una persona non più distratta che incrocia con lo sguardo una macchia bianca e nera, appesa dinnanzi ai suoi occhi, che è un foglio A4 scritto al computer in caratteri Calibri 14, grassetto e corsivo, ed ora stampato e plastificato è lì che ti pende davanti.
In questo momento non sei più una storia, sei una narrazione, anzi, sei entrato in una narrazione. Il racconto di uno che nella città in cui abita trova alla fermata del tram che prende tutti i giorni una poesia che attende di essere letta. E non è una cosa normale, la cosa è straordinaria, perché nei tanti lustri della tua vita non ti era mai accaduta prima. Una specie di apparizione, un evento straordinario, perché a raccontarlo non ti capita tutti i giorni di incontrare una poesia per strada che si presenta e vuole essere letta. Incontri pittori e musicanti, ma le poesie ancora no.
Una poesia impertinente oltretutto, che ti interroga sulle cose che ci costringono a essere noi stessi. Ecco che sei messo con le spalle al muro. Non puoi fingere di non essere te stesso. Non puoi scappare, levare gli occhi dal foglio. Mai ti saresti aspettato un simile tranello dalla tua città, a una fermata dell’autobus dove hai fretta perché il tram è sempre in ritardo e quest’oggi pare che per colpa di questa poesia lo sia ancora di più.
Ti ritrovi il tuo te stesso tra le mani da gestire, un po’ ingombrante in questo momento, perché sei uscito di casa per fare altre cose non certo per interrogarti sul tuo passato o sulle ancore in mare aperto come pretendono le strofe di questa poesia davvero invadente.
“Essere noi stessi/ Questo è l’infinito”, sentenzia la poesia in conclusione. Con versi così puoi rischiare di sbandare seriamente, non resta che chiedere rifugio alla propria memoria, al leopardiano infinito “e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Intanto ho perso l’autobus perché mi sono messo a cercare se c’erano altre poesie erranti intorno. Ma la strada l’ho fatta volentieri a piedi ripetendomi mentalmente le parole della poesia che mi è stata offerta, erranti lei e il suo autore, ora errante anch’io.
Un incontro che mi ha fatto piacere perché avere delle pause di sorpresa camminando per la città non è cosa di tutti i giorni. E poi perché tante volte ho scritto in questa rubrica di città che apprende e di città che si fa narrazione e trovare che le tue idee poi si concretizzano almeno alle fermate dell’autobus fa bene allo spirito e alla ragione.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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