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Molte giornaliste finiscono in carcere ogni anno perché provano a documentare ciò che sta succedendo nel mondo. Una questione che mi sembra importante affrontare e approfondire è il legame tra il modo di intendere la professione di queste giornaliste, il rischio che corrono e le conseguenze ne derivano.

Zhang_Zhan (foto OMCT, SOS Torture Network)

Un caso che mi ha colpito particolarmente è quello della blogger cinese Zhang Zhan, che è stata torturata dalla polizia segreta cinese e condannata a quattro anni di carcere perché accusata di “false informazioni sui social media” attraverso un rapporto da lei redatto nel 2020 sulla cattiva gestione della pandemia Covid-19 da parte del governo cinese.

In particolare, Zhan ha documentato come funzionari dello Stato molestassero le famiglie degli ammalati. La situazione era sicuramente grave, la malattia allora sconosciuta e la tensione sociale alle stelle, ma questo non giustifica l’atteggiamento dei funzionari del governo. Inoltre, l’uso della tortura nei confronti della giornalista è vergognoso, universalmente inammissibile. [si veda: https://www.amnesty.it/appelli/firma-per-zhan/ ].

Di solito i giornalisti, le giornaliste in questo caso, sono sottoposti a rischi tanto più forti quanto la notizia porta con sé la capacità di sovvertire uno status quo o, comunque, è contraria alla ‘visione dominante’ di un evento, di una politica o ideologia. Il potere dittatoriale si fonda sulla costruzione di un “unica versione dei fatti” che non deve essere sovvertita, pena l’incapacità della dittatura di sopravvivere e prosperare. Questo andare contro la “visione dominante” può essere un rischio calcolato se per calcolo si intende l’accettazione di conseguenze estreme che comprendono anche la messa a repentaglio della propria vita. Fa inoltre impressione che tante di queste giornaliste siano donne che scelgono questa professione accettandone i rischi che riguardano sia l’incolumità professionale, sia una vita familiare e di relazione fortemente condizionata dal “dovere di cronaca”.

L’RSF (Reporters sans frontieres) ricorda che i giornalisti in carcere nel 2021 erano 488, di cui 60 donne, tutti detenuti illegalmente perché la detenzione arbitraria è vietata dal diritto internazionale. L’Art. 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo infatti recita «no one shall be subjected to arbitrary arrest, detention or exile» (nessuno può essere sottoposto ad arresto arbitrario, detenzione o esilio). Il documento è stato sottoscritto anche nel Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici.

In Birmania la giornalista Ma Zuzar si trova in isolamento nel carcere di Insein per aver raccontato le manifestazioni contro la giunta militare golpista che si è insediata l’1 Febbraio del 2021. L’1 febbraio di quest’anno i birmani, contrari all’attuale regime, hanno manifestato contro il colpo di stato con negozi chiusi, residenti chiusi in casa e proteste pacifiche. Allo sciopero ha aderito gran parte della popolazione, nonostante le minacce di conseguenze penali arrivate dalla giunta del generale Min Aung Hlaing. Ma purtroppo, lo stato di emergenza è stato esteso di altri sei mesi e le intenzioni del regime di mantenere il potere sono chiare, anche di fronte ad ulteriori sanzioni minacciate dalla comunità internazionale. [si veda: https://www.swissinfo.ch/ita/tutte-le-notizie-in-breve/un-anno-fa-il-golpe-in-birmania–piazza-sfida-la-giunta/47312442 ]

Katsiarina Andreyeva (foto Wikimedia Commons)

In Bielorussia il numero di giornaliste dietro le sbarre (17) è superiore a quello dei colleghi maschi (15). Tra le detenute ci sono Daria Tchoultsova e Katsiarina Andreyeva. Giovedì 18 febbraio 2021 le due reporter del canale indipendente polacco Belsat, sono state condannate a due anni di colonia penale per “organizzazione e preparazione di atti di grave violazione dell’ordine pubblico”. Le due giornaliste sono accusate di aver trasmesso in diretta una manifestazione non autorizzata: stavano infatti filmando una manifestazione in omaggio all’attivista dell’opposizione Raman Bandarenka, nella cosiddetta piazza dei “cambiamenti” a Minsk. L’attivista è morto in circostanze inspiegabili dopo il suo arresto il 12 novembre e le due reporter sono state incarcerate e condannate in maniera illegale. [si veda: https://rsf.org/fr/rsf-d%C3%A9nonce-la-volont%C3%A9-d-annihiler-tout-journalisme-ind%C3%A9pendant-au-belarus-apr%C3%A8s-la-condamnation ]

Sempre secondo RSF sono quattro le giornaliste in carcere in Vietnam, tra le quali Pham Doan Trang, una delle attiviste per i diritti umani più conosciuta in Vietnam. La sua principale attività era quella di promuovere la libertà di informazione in uno Stato a guida socialista che non tollera il dissenso. Oltre ad essere autrice di numerosi libri, Doan Trang è cofondatrice del blog “luật khoa tạp chí” (Giornale di diritto) dove si occupava del tema della difesa della dignità umana in ogni suo aspetto: dalle questioni di genere al cambiamento climatico. Proprio la visibilità di cui godeva, l’ha resa un soggetto sgradito al governo. L’accusa che si trova a fronteggiare oggi Pham Doan Trang fa riferimento all’articolo 117 del codice penale vietnamita pensato per punire coloro che “producono, immagazzinano e diffondono informazioni, materiali e prodotti che cercano di opporsi alla Repubblica federale del Vietnam”.

Tra le vicissitudini di giornaliste incarcerate, Amnesty International ricorda quella di Narges Mohamadi, giornalista iraniana che dopo aver scontato otto anni in carcere, è stata arrestata di nuovo nel novembre 2021. Narges Mohammadi è detenuta arbitrariamente nella prigione di Shahr-e Rey (nota anche come Gharchak) nella città di Varamin, provincia di Teheran. Le stanno deliberatamente negando assistenza sanitaria adeguata come rappresaglia per le sue campagne pubbliche, come quella contro l’uso dell’isolamento nelle carceri o quella per la ricerca delle responsabilità per le centinaia di omicidi illegali avvenuti durante le proteste del novembre 2019. Secondo quanto riportato da suo marito, il 23 giugno 2022 Narges Mohammadi è stata trasferita in ospedale, fuori dal carcere, dopo aver avvertito difficoltà respiratorie e battito cardiaco irregolare. Da quando è tornata in prigione dall’ospedale le sono stati negati alcuni farmaci specifici prescritti dal medico specialista. [si veda: https://www.amnesty.it/appelli/iran-nuova-condanna-per-narges-mohammadi/ ]  Una situazione di assoluto non rispetto dei diritti essenziali di qualsiasi essere umano che, purtroppo, non è così rara come si potrebbe pensare.

Ilaria Alpi (foto Wikimedia Commons)

Se ripercorriamo la storia più recente, troviamo i nomi di molte giornaliste morte per raccogliere e comunicare notizie. Solo per citarne alcune: Lea Schiavi, Graziella De Palo, Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Camille Lepage, Anja Niedringhaus, Regina Martinez Perez, Anna Politovskaya, Marie Colvin, Daphne Caruana Galizia, Dada Vujasinovic, Mursal Hakimi, Sadia, Shanaz, Lourdes Maldonado López, Neneng Montano, Mayada Ashraf, Leyla Yıldızhan (alias Deniz Firat), Naseeb Miloud Karfana, Rubylita Garcia, Elisabeth Blanche OlofioKim Wall. Ognuna di loro meriterebbe un posto nei libri di Storia. Alcune, per fortuna, lo hanno già.

Una delle questioni che dovrebbe fare riflettere e che ha a che vedere con tutte queste morti e con altre che purtroppo arriveranno, è la definizione di ciò che è “vero”. La verità, così come la corrente formalista della filosofia intende, è sinonimo di dimostrabilità. In questa accezione, la verità in quanto tale non può essere manipolata perché perde il suo attributo essenziale, la dimostrabilità.

Senza entrare in dissertazioni filosofiche, credo che il legame tra osservazione (attenzione intesa all’ottenimento di una visione completa e dettagliata o alla formulazione di un giudizio, motivata per lo più da ragioni tecniche o scientifiche o anche da una notevole capacità intuitiva), documentazione (il complesso delle attività e operazioni occorrenti per raccogliere e classificare materiale bibliografico, informativo, dimostrativo), interpretazione (il modo di scoprire e spiegare quanto in uno scritto o discorso è oscuro o oggetto di controversia, di attribuire un significato a ciò che si manifesta o è espresso in modo simbolico, attraverso segni convenzionali o noti a pochi) e diffusione (comunicazione di qualcosa a un numero sempre maggiore di persone, sinonimo di  divulgazione) sia l’ossatura necessaria alla costruzione di una verità dimostrabile.

Se ognuna di queste fasi è svolta con rigore e onestà intellettuale ci avviciniamo a ciò che comunemente possiamo intendere dimostrabile e quindi vero. In nome della “salvaguardia della verità” si annida la deprecabile motivazione ad imprigionare e uccidere, grazie alla dimostrabilità si vivifica una notizia e si dà nuova voce a chi la può dimostrare. Questo tema (solo accennato) non riguarda le singole persone arrestate e torturate, ma riguarda tutte quelle situazioni in cui si legittima, o si tenta di legittimare, la violenza come unico mezzo per continuare a garantire l’affidabilità di ciò che viene propagandato come vero.

Ogni volta che un evento non può essere dimostrato perde potere di comunicazione e cambiamento. Ciò che non è definibile non è legittimo, non esiste, così come smette di esistere colui o colei che ha provato a costruire la sua identità professionale secondo un processo di dimostrabilità delle notizie diffuse che, se non riuscito, viene azzerato, fatto a pezzi.

Ogni giornalista ha il diritto di dire ciò che pensa in qualunque territorio si trovi, in qualunque nazione viva, in qualunque regime politico scriva e in qualunque setting debba gestire relazioni.

Non è accettabile che tranquillità, benessere, decisione, ordine, possano, anche subdolamente, essere associati alla mancanza di notizie, o alla loro censura o all’affidamento del “newsmaking” ad una cerchia di comunicatori che appartiene alla stessa ideologia di chi comanda. Questo è pericoloso, irresponsabile, non democratico, demagogico e prova che il circuito del progresso ha bisogno di rinforzi.

Cover: Narges Mohammadi una donna da difendere almeno con una firma  AgoraVox

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Catina Balotta

Sociologa e valutatrice indipendente. Si occupa di politiche di welfare con una particolare attenzione al tema delle Pari Opportunità. Ha lavorato per alcuni dei più importanti enti pubblici italiani.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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