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Viviamo in un contesto sociale ed economico in rapido mutamento che stentiamo a comprendere; guardiamo indietro e ci accorgiamo che non possiamo più usare con successo le vecchie strategie del mondo industriale; guardiamo avanti e notiamo che inventare nuove vie è tutt’altro che semplice, e forte è il rischio di usare sempre la vecchia logica e le stesse strategie che hanno condotto quasi al disastro. Travolti da un eccesso di informazione, ancora non ci rendiamo conto che stanno sorgendo nuovi modelli tecnologici, nuove strutture sociali e nuovi modi di generare valore che potrebbero cambiare radicalmente il rapporto tra organizzazioni e cittadini.

Nel nostro tipo di società buona parte della vita la passiamo dentro le organizzazioni: sono esse che offrono lavoro e producono tutti quei beni e servizi che crediamo ormai indispensabili per affrontare i nostri bisogni; anche questi ultimi sono in buona parte prodotti dall’attività di altre specifiche organizzazioni. La nostra vita è insomma altamente strutturata in base ai tempi, alle esigenze e alle procedure delle organizzazioni, agli occhi delle quali siamo tutti potenziali risorse utilizzabili.

Cominciamo allora col fare chiarezza.

1. Gerarchie. Perché esistono le organizzazioni?
Sostanzialmente per dare ordine agli sforzi coordinati di più persone che contribuiscono insieme a perseguire il fine dell’organizzazione. Molti anni fa l’economista Ronald Coase (era il 1937) si poneva questa domanda relativamente a quel tipo particolare di organizzazioni che sono le aziende e in La natura dell’impresa egli affermava – a ragione – che le aziende esistono per ridurre al minimo i costi di transizione che potrebbero causare sprechi e scontri, perdita di tempo e impicci, confusione e fraintendimenti, errori vari di interpretazione sulle cose da fare per raggiungere lo scopo. Secondo questa prospettiva è del tutto razionale aggregare le persone in un sistema gerarchico (l’azienda appunto, ma più in generale ogni organizzazione) fondato sul potere del superiore sui subordinati e sulla divisione dei compiti: basta allora che alcuni individui selezionati condividano uno scopo e possiedano ruoli, responsabilità e modelli di comunicazione prestabilite per fare in modo che le cose, semplicemente avvengano. E’ all’interno di questo piccolo sistema sociale organizzato e piuttosto chiuso che trova spazio, si afferma e sviluppa tutta la disciplina del management con i suoi miti di efficienza e le pratiche “scientifiche” di selezione e gestione delle risorse umane, leadership più o meno partecipativa, gestione della cultura, formazione. Tuttavia per minimizzare i costi di transizione le organizzazioni finiscono spesso per lavorare con chiunque sia stato aggiunto piuttosto che con i migliori soggetti possibili: una situazione fortemente aggravata quando nei meccanismi della selezione intervengono corruzione, raccomandazioni, ottusità burocratica e calcolo politico.

2. Mercati. Un potenziale enorme di saperi inutilizzato
Pochi anni dopo, un altro economista Friedrich von Hayek, nel suo studio del 1945, ormai diventato un classico, L’uso della conoscenza nella società sosteneva appunto – e con buone ragioni – che poiché il sapere è distribuito tra le persone in maniera disomogenea (e, aggiungiamo, che le persone sono dislocate sui territori in modo non uniforme), le organizzazioni centralizzate e coordinate non sarebbero in grado di sfruttare al meglio la conoscenza diffusa che, al contrario, potrebbe essere valorizzata molto meglio dai mercati. Il fatto è che fuori dai confini dell’organizzazione, per quanto grande essa possa essere, c’è un numero enorme di persone, di saperi, di conoscenze e di risorse motivazionali, oltre che cognitive, tutte potenzialmente raggiungibili ed utilizzabili per quanto raramente utilizzate ed anzi per lungo tempo considerate inutili dalle organizzazioni stesse, se non per l’esigenza di cambiarle e di renderle adeguate alle proprie procedure di funzionamento. Per un’organizzazione diventa strategicamente importante comprendere il modo per coinvolgere questa enorme sezione di popolazione.

3. Reti e comunità. Il superamento della predominanza di gerarchie e mercati?
Negli ormai lontani anni ’80, Margaret Thatcher riprendendo politicamente alcune di queste idee amava ripetere che “la società non esiste, ci sono solo individui e famiglie”, o, peggio ancora che “non esiste una cosa chiamata società: esistono solo gli individui”. A fronte di questo, negli ultimi vent’anni si è venuta affermando una (apparentemente) opposta visione supportata dalle tecnologie digitali che celebra il successo, la pervasività e l’assoluta necessita delle reti, delle comunità (community), delle tribù digitali. Le comunità, contrariamente alle organizzazioni gerarchiche, spesso intasate di burocrazia ed impegnate a difendere la propria integrità organizzativa, si formano intorno ad interessi e bisogni condivisi senza procedure se non quelle strettamente necessarie al loro informale funzionamento. A ben vedere, e con tutte le riserve del caso, si può ipotizzare dietro a questi sviluppi il superamento della vecchia contrapposizione tra comunità e società e il riconoscimento implicito che gerarchie e mercati senz’anima non possono essere la soluzione dei problemi del mondo, delle collettività e delle persone.

4. Gerarchia, mercato, comunità. Come coinvolgere le persone esterne?
Osservato dal punto di vista di un’organizzazione il mondo appare composto da un piccolo numero di persone che stanno “dentro” e da un grandissimo numero di persone che stanno “fuori”; cosa significa in tale situazione ammettere la contemporanea presenza di gerarchia, mercato e rete o comunità? Possiamo immaginare l’enorme numero di persone che si trovano fuori dall’organizzazione (gente che solitamente si guadagna il pane in altro modo) come uno sconfinato insieme di soggettività che aspettano solo di trovare iniziative che possano attirare la loro attenzione. Si tratta di un ipotesi di lavoro straordinariamente interessante per il mondo dei servizi, un approccio già ampiamente sviluppato sulla spinta delle tecnologie digitali attraverso fenomeni di grande spessore come l’open source, il crowdfunding, il crowdsourcing. La chiave di volta di questi approcci è il riconoscimento che “lì fuori” ci sono risorse disponibili, purché si possano garantire ai potenziali partecipanti forme di ricompensa (materiale, immateriale, simbolica, diretta, indiretta) capaci di soddisfare un loro bisogno superiore. Non conta per chi lavorano i migliori: se il progetto è veramente interessante, i soggetti motivati lo troveranno.

5. Aprire le organizzazioni. Come costruire relazioni orizzontali?
Cosa comporta questo riconoscimento per le organizzazioni, in particolare per quelle che agiscono nel settore dei servizi alla persona, in un periodo come questo di ristrettezze economiche, tagli alla spesa e difficoltà finanziarie? Molto probabilmente l’esigenza di aprirsi verso l’esterno abbattendo i confini, rendendosi trasparenti, costruendo nuove relazioni orizzontali. Contrariamente alle organizzazioni a cui siamo abituati a pensare, che enfatizzano valori, missione, regole, piani e strategie di battaglia, le organizzazioni di questo tipo agiranno in base alla “legge della varietà” indispensabile in una teoria dei sistemi, secondo la quale l’organizzazione deve essere complessa tanto quanto il sistema all’interno del quale opera; in essa ci saranno parti più o meno gerarchiche in funzione dell’incertezza con cui hanno a che fare, mentre altre parti avranno bisogno di diventare estremamente dinamiche, aperte e duttili, e dovranno riconoscere e saper usare le reti e le comunità “lì fuori”, costruirne di nuove per poi sostenerle e legittimarle, accettandone le regole di funzionamento (chi si occupa di comunicazione insegna che la community è potenzialmente il migliore canale di marketing).

6. Valorizzare i territori e le comunità. Cosa comporta per il territorio che ospita le organizzazioni e per le comunità locali che ci vivono?
Diversamente da quello che succede in rete, dove ognuno tende a mostrarsi e ad emergere dal mare di informazioni, le risorse disponibili sul territorio sono spesso nascoste, non si esibiscono, sono discrete e quindi sottovalutate. Ne consegue l’esigenza di riconoscere e mettere a patrimonio comune conoscenze, saperi, capacità, artefatti e quant’altro, rendendoli visibili e mettendoli nelle condizioni di diventare concretamente generativi di innovazione sociale. Persone di talento straordinario possono essere ovunque, spesso si trovano proprio sotto il naso, ma l’organizzazione chiusa non è in grado di vederle. Quali potrebbero essere le persone più indicate tra cui reclutare questi soggetti? A livello territoriale, dove è già forte il fenomeno del volontariato, non vi è dubbio su quali possano essere i maggiori indiziati: i pensionati e forse i giovani che non sono ancora entrati nel mondo del lavoro, due categorie particolarmente bersagliate dalla crisi; ma anche i membri delle “comunità operose” e tutti quei soggetti orientati all’azione sociale da cui provengono spesso gli imprenditori morali e gli innovatori sociali.

Il tema delle organizzazioni, dei loro scopi, del potere che hanno nella società e sulle persone merita un’attenzione costante da parte dei cittadini e non può essere trattato dimenticando le profonde radici storiche, ideologiche e culturali che affondano nel passato. Facciamo allora tesoro delle esperienze che in Italia hanno saputo integrare queste tre prospettive (gerarchia, mercato, comunità) partendo dal basso e in modo geniale: si pensi ad esempio ai distretti industriali che avevano immaginato un’industria perfettamente integrata nel mercato e nella comunità territoriale; pensiamo alla straordinaria opera di Adriano Olivetti. Non facciamoci ingabbiare dai pur necessari specialismi che portano a considerare il tutto come semplice estensione di una parte, e quindi l’intera società ridotta a mercato, ridotta a management, o ridotta a rete. Recuperiamo una visione d’insieme e proviamo ad immaginare modi differenti per costruire un diverso e migliore futuro.

Si può fare.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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