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Fotografare la musica: l’emozionante mostra “Il sorriso di Claudio” alla Rotonda Foschini. Intervista al fotografo  Marco Caselli Nirmal.

La Rotonda Foschini è per me uno dei più bei luoghi di Ferrara. Nelle passeggiate in centro che faccio spesso – volendo sentirmi un po’ turista e molto flaneuse [1]– è la mia meta preferita, soprattutto quando, nei riquadri delle finestre che si rincorrono nella fascia ad altezza d’occhio, sono esposte, in diverse e sempre centratissime occasioni, le fotografie di Marco Caselli Nirmal.

Sono fotografie di teatro, giacché questa è la specialità di Marco, che del Teatro Comunale Claudio Abbado è il fotografo ufficiale. Sono fotografie che hanno una vita, una luce, uno spessore straordinari, qualunque sia il soggetto raffigurato. E ti fanno vivere lo spettacolo che riproducono, ti fanno sentire la musica degli strumenti e la voce dei cantanti, ti fanno vedere le movenze dei danzatori, ti fanno emozionare e palpitare.

Il tutto amplificato dalla cornice: le pareti ogivali di quel bel rosso dei mattoni ferraresi, le quattro file di finestre (di cui le due più in alto chiuse da imposte di un bel verde) che accompagnano lo sguardo verso l’apertura ovale che dà direttamente sul cielo, ultimamente sempre più spesso di un azzurro limpido.

È ciò di cui abbiamo goduto in tanti nella tarda mattinata di sabato 20 gennaio, nella inaugurazione della mostra dal magnifico titolo IL SORRISO DI CLAUDIO – Fare musica insieme: Abbado a Ferrara nelle immagini di Marco Caselli Nirmal 1990-2013 organizzata da Ferrara Musica.

Le foto poi continuano, nella forma del fronte/retro, sotto il portico corrispondente all’ingresso del teatro, dove è una goduria emozionante camminare a testa in su e ammirare volti gesti e sorrisi del Maestro. Nello spostarsi dalla Rotonda al porticato lo sguardo viene quasi pilotato, sulla destra, dai gradini dello scalone del Ridotto, verso una gigantografia che riproduce un gesto iconico, le braccia aperte, come due ali spiegate a interpretare il volo della musica.

Il sorriso di Claudio

Il sorriso del Maestro, rivelatore della sua gentilezza, è l’aspetto che più mi ha colpito nel discorso di Marco Caselli Nirmal, seguito agli interventi dell’assessore alla cultura Gulinelli, del presidente di Ferrara Musica Francesco Micheli e di Moni Ovadia, direttore generale del Teatro Abbado.

Ed è proprio il sorriso, il primo argomento che gli ho chiesto di trattare nella intervista che mi ha concesso qualche giorno dopo.

È un argomento che mi ha colpito emotivamente – dice Marco – perché al di là del lavoro costante, massivo, che ho fatto con Abbado, ho voluto soprattutto seguire gli esiti di questo sorriso che in realtà mi corrisponde; perciò ringrazio questa mostra che mi ha obbligato a dare ascolto a questo richiamo. Il suo sorriso mi ha fatto da guida, anche eticamente, rispetto al mio lavoro di fotografo; quindi ho cercato di documentare il lascito, l’eredità di Abbado, ma attualizzandola, rendendola viva. Volevo evitare in ogni modo il rischio di dar vita ad una celebrazione vuota, retorica, perciò ho evidenziato, nel breve discorso di presentazione, l’elemento della gentilezza, che è anche l’intonazione del mio lavoro, che si propone di seguire la tensione legata al trasmettere le cose e rendere più operativa la memoria delle opere d’arte”.

Claudio Abbado e José Antonio Abreu

Continua Marco: “Io ho sempre pensato che la musica è l’arte che muove tutte le altre, dovevo quindi partire dal musicista che ho seguito di più da quando faccio questo mestiere e far cogliere il riflesso, l’eredità di un uomo, un maestro che è venuto a mancare. Ora che di lui è rimasto il silenzio (ricordo che al termine di una esecuzione della Nona di Mahler nella Sala Santa Cecilia di Roma nel 2004 invitò il pubblico ad attendere ad applaudire e godere per alcuni minuti il silenzio) ci rimane la sua lezione, il suo pensiero, ci rimangono i semi che ha raccolto nel corso della sua vita, anche nel contatto con altre esperienze artistiche, come EL Sistema creato in Venezuela da José Antonio Abreu.

Il messaggio e il significato profondo dell’agire del maestro venezuelano sono arrivati, grazie ad Abbado, qui da noi; li ha accompagnati con azioni, invenzioni, creazione di orchestre, soprattutto giovanili, per risvegliare l’attenzione nei confronti della musica in parte sopita in Occidente rispetto ai secoli passati”.

Il discorso di Marco si concentra poi sul rapporto che il Maestro aveva con i musicisti, da lui osservato nelle lunghe sedute per le riprese fotografiche, sia durante le prove che in concerto.

Il modo di muovere le mani

“Abbado metteva in mostra quasi una forma di complicità, mi appariva come ’il capobanda’ di un gruppo che era praticamente alla pari. I suoi sorrisi erano proprio sintomo di questa complicità” e io mi inserisco nel suo discorso per osservare un aspetto che mi sta molto a cuore: la complicità, nei video che sto scorrendo per scoprirlo meglio, la vedo anche nel suo modo di muovere le mani.”

Anche nelle tue foto, gli dico, le mani di Claudio appaiono potentissime: tu le rispetti e le metti in luce. Marco risponde raccontando il suo modo di lavorare, il rapporto particolare che instaura con il soggetto rappresentato. È come se lo stile discreto di Claudio Abbado venisse condiviso in toto dal fotografo, che quasi si schermisce dal mio complimento: “Sull’esito fotografico non spetta a me dire, io ho fermato quelle immagini come riflesso. Quello che ho notato sul piano della direzione orchestrale è che Claudio aveva un segno veramente bello, rispettoso della musica e dei musicisti, un segno che faceva sì che io avessi davanti la musica, cosa che molto difficilmente ho visto con altri direttori, più centrati su sé stessi.

Anche i musicisti, quelli con cui avevo confidenza e ai quali chiedevo di dirmi cosa pensavano di lui, mi dicevano che non necessariamente lui era più bravo degli altri, ma rendeva le cose più semplici, rendeva facilitante fare musica, e questo è un dono raro. Un altro aspetto che vorrei trattare riguarda il fotografare durante le prove e nei concerti, le diverse situazioni, importanti entrambe, ma con esiti indubbiamente differenti. E occorre osservare che, soprattutto prima delle macchine digitali, raramente era concesso dagli organizzatori di riprendere durante i concerti, a causa del disturbo che poteva causare il rumore dello scatto.

Io considero importante la fase delle prove, ma il compiersi dell’opera d’arte, il ricostituire l’opera attraverso il lavoro dei musicisti e del direttore produce una trasformazione che accade solamente durante la presenza del pubblico. L’attenzione che ho avuto sempre nei confronti del disturbo provocato dallo scatto fotografico è nata in me nei tempi estremamente significativi, in cui ho cominciato a lavorare per la Sala Polivalente, in occasione delle performances dal vivo che là si svolgevano, così come mi si è rivelata allora la propensione per la fotografia culturale.”

Una fotografia che fa sentire la musica

Gli chiedo poi se quando fotografa presta ascolto alla musica e se essa lo indirizza, se la musica condiziona in qualche modo l’atto del fotografare.
E lui torna a parlare del rumore disturbante dello scatto.

Certo, mentre fotografo ascolto. Ti dicevo del rumore: il primo a essere disturbato quando scatto sono io perché ciò crea un’interruzione del flusso comunicativo con la musica. La soluzione, allora, si trova privilegiando i momenti di ‘pieno orchestrale’. Io mi pongo sempre nella consapevolezza che quello che sto fotografando è un’opera d’arte e che devo assecondarla, devo entrare in sintonia e non essere elemento di disturbo, di dissonanza.

Questo vale anche per la prosa, che vive sul suono della voce, per cui ha le stesse regole della musica, e ricordo con piacere l’apprezzamento di Paolini verso il rispetto che manifestavo nei confronti della voce. E comunque, quando qualcuno dice o scrive che la fotografia ‘fa sentire la musica’  [2] non voglio negare che questo possa accadere, ma dico che ciò non dipende dalla fotografia, ma da cosa prova chi la guarda, l’immagine fa da attivatore di sensazioni o emozioni che chi guarda ha già dentro; e questa funzione è propria di tutte le discipline artistiche.

Fotografare nella Terra di nessuno 

Certo ci possono essere esiti diversi se si tratta di foto giornalistica o di espressione artistica. Ho sempre amato stare nella linea di confine fra il gornalismo e l’arte, sono sempre stato attratto dai confini, dalle ‘terre di nessuno’, in cui c’è compresenza dell’uno e dell’altro aspetto: la documentazione e il fare artistico.
Cerco la linea di contatto fra una disciplina e un’altra, fra un concetto e un altro, una sorta di inquinamento, una messa in connessione tra elementi diversi, altrimenti l’espressione non è fertile.

Anche il mio percorso di studi e le successive scelte professionali mostrano questa mia attitudine a voler stare ‘sul crinale’: ho iniziato Architettura a Venezia, non l’ho completata e sono diventato fotografo, cominciando proprio col fotografare edifici, sempre al confine fra arte e architettura, come poi sarà fra arte e musica, fra parola e musica, sempre cercando il contatto e il confine, l’incontro, la gentilezza ed evitando il più possibile gli integralismi. E, per tornare alla fotografia, sento di non rimpiangere la macchina analogica, la camera oscura, lo sviluppo e la stampa”.

La conversazione, ricca e stimolante, tocca poi altri aspetti interessanti, ma mi preme non perdere il filo dell’incontro con Claudio Abbado attraverso le fotografie messe in mostra, per cui mi concedo una domanda conclusiva, che sta al confine fra tecnica ed espressività: perché (come mi ha confessato appena finita l’inaugurazione) per le foto della Rotonda avrebbe preferito il bianco e nero?

Riguardandole ora, e confrontandole con quelle esposte l’anno scorso nella mostra Volti della regia – mi risponde – mi è venuto da pensare che anche queste di Abbado (tranne una, quella del sorriso) avrebbero, in bianco e nero, una forza maggiore, rispetto all’ambiente, una intonazione con lo spazio, giacché a volte il colore può essere fonte di distrazione, soprattutto in uno sfondo cromaticamente determinato come quello della Rotonda. Al contrario, quelle esposte lungo il portico prendono maggiore valore, a colori, perché collocate in alto in una zona non particolarmente illuminata.”

L’incontro con Marco Caselli Nirmal mi ha consentito di avvicinarmi di più al Maestro che voleva essere chiamato soltanto Claudio, come più volte è stato ricordato nel corso dei tanti eventi dedicati a ricordarlo nella giornata del decimo anniversario della morte. Forse è proprio così: riusciamo veramente a scoprire e a capire qualcuno, solo se lo vediamo (e magari lo fotografiamo) nei suoi gesti quotidiani. Piccoli gesti che compongono un grande Maestro, raccontati da un grande fotografo.

La mostra Il sorriso di Claudio – Fare musica insieme: Abbado a Ferrara nelle immagini di Marco Caselli Nirmal 1990-2013″ sarà visitabile presso la Rotonda Foschini di Ferrara fino al 15 aprile 2024.

Periscopio dedicherà uno “Speciale” al maestro Claudio Abbado  e al fotografo  Marco Caselli Nirmal con tutti gli scatti in mostra ed alcuni inediti dal 21 febbraio al 20 marzo 2024.

Note:
[1] La parola, notissima, francese flaneur indica proprio chi passeggia per il piacere di farlo e addirittura gode del paesaggio. Di questo termine, però, manca il corrispettivo femminile. C’è stata una sorta di accordo tra accademici e perfino femministe per cui non si è mai pensato di declinarlo: del resto le donne non hanno mai avuto la totale libertà di camminare per la città. Io però me lo sono inventata, è flaneuse>.  Così, in un’intervista del 2017 su Il libraio, racconta Lauren Elkin, autrice del libro omonimo, edito da Chatto&Windus, che rievoca grandi autrici che amavano passeggiare per le loro città.

[2] …perché gli dico che forse considererà retorica la frase, di questo mio articolo, in cui scrivo che le sue fotografie fanno sentire la musica…

Bibliografia e sitografia

Foto in copertina e nel testo di Marco Caselli Nirmal

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Maria Calabrese

Pugliese di Foggia, trapiantata a Venezia, poi a Ferrara, il che dimostra che amo le città belle. Amo altresì i libri, i quadri, i dischi, l’archeologia. Ho studiato letteratura e lingue classiche e le ho insegnate per molti anni con grande passione. Canto in un coro, studio la fisarmonica di papà. Amo scrivere ma ancor più leggere, anzi nel leggere e nell’incontrare scrittori mi capita di trovare linfa per il mio scrivere.

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PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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