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RIGENERAZIONE GENTRIFICATA, CITTÀ DECARBONIZZATA, SENSO COMUNE:
RIFLESSIONI PER UN’AZIONE DI GOVERNO A FERRARA

I progetti di rigenerazione urbana riguardano di norma una “parte” di città, ad esempio un’area industriale dismessa, uno scalo ferroviario non più utilizzato, un’area militare abbandonata o altre situazioni simili. Al contrario la riflessione sulla città decarbonizzata o sulla città della transizione ecologica, si rivolge al “tutto”. Una strategia complessa, incentrata sulla rigenerazione urbana, sul blocco del consumo di suolo, sulla decarbonizzazione dovrebbe quindi associare la “parte” e il “tutto”.

Oggi invece si tende a spacciare come “tutto” quello che avviene o si propone per una “parte”, dandogli un significato olistico, non riscontrabile nei fatti, anche perché i vantaggi dell’azione rigenerativa sono selettivi, non riguardano tutti (es. la gentrificazione di un’area urbana, un tempo marginale, che porta alla sostituzione della popolazione residente).

Non esiste dunque un atto rigenerativo al di fuori di una strategia condivisa (che non significa che tutti sono d’accordo). Un progetto rigenerativo trova senso solo dentro una politica urbana, in grado di gestire i processi trasformativi, cercando di bilanciare gli effetti sociali indotti dal valore, a mio parere non negoziabile, del diritto alla città per tutti.

Disuguaglianze urbane e gentrificazione

Se non si opera seguendo questa prospettiva, il rischio è che le azioni rigenerative siano selettive, perché quando si risana un quartiere popolare i valori immobiliari cambiano. Si generano dei processi di espulsione della popolazione meno abbiente verso le parti più esterne della città che, se non dotate di un efficiente sistema di mobilità pubblica, determinano, per chi vi abita, una situazione sfavorevole ambientalmente (ricorso necessario all’auto privata) e socialmente (marginalizzazione della componente economicamente più debole della popolazione).

L’esperienza ci racconta che il recupero dei bacini portuali dell’East London, la rigenerazione delle aree portuali di Boston o Brooklyn, quello degli scali ferroviari di Milano o Londra, per giungere anche a Copenaghen, modello di città eco-sostenibile, frequentemente rafforzano le disuguaglianze urbane.

Interventi quali: creazione di nuovi parchi e aumento degli alberi in città, riqualificazione dei waterfront, mitigazione delle isole di calore, ridisegno degli spazi pubblici anche per gestire gli effetti indotti dalle acque piovane, recupero di vecchi edifici esistenti per trasformarli in uno studentato o in una attrezzatura pubblica, interventi per la mobilità sostenibile, fanno parte di quelle azioni di adattamento che normalmente ritroviamo nei progetti di rigenerazione urbana.

Essi hanno certamente un effetto positivo sulla transizione ecologica, ma scatenano anche investimenti finanziari e immobiliari di lusso che generano disuguaglianze e allontanano sempre più i cittadini a basso reddito. Solamente una strategia fondata su “valori non negoziabili”, da definire all’interno di un processo partecipativo con le comunità locali, può dare un senso ampio e condiviso a quelle azioni.

Diversamente il rischio è quello di una rigenerazione neoliberista fondata sulla egemonia delle rendite immobiliari che producono gentrificazione, che a sua volta, a cascata, determina la necessità di introdurre forme di privatizzazione o semi-privatizzazione dello spazio urbano.

Un esempio storico è l’impossibilità di accedere alle spiagge demaniali perché impropriamente privatizzate dai titolari delle concessioni, ma anche l’impossibilità di sedersi su di una panchina pubblica, perché tolte per favorire la distesa dei dehors delle attività commerciali e impedire il “bivaccamento“, o ancora il rafforzamento di dinamiche di segregazione (quartieri di edilizia pubblica in degrado) e auto-segregazione (gated communities dove risiede l’élite) socio-economica.

Va quindi evitato che la città della transizione ecologica slitti verso una eco-gentrificazione trasformata in strumento di esclusione o espulsione. Un esempio, l’idea della “città dei 15 minuti” (che sessant’anni fa i progetti dell’Ina-Casa avevano ben chiara) diventa in questa prospettiva una retorica, che può diventare azione concreta solo nelle parti rigenerate, dove un certo tipo di commercio di prossimità e di servizi alla persona sono possibili grazie alle condizioni economiche dei residenti. Per gli altri rimangono gli ipermercati, i centri commerciali, che continuano a crescere come funghi nelle aree periurbane, rendendo difficile il ricorso ad una mobilità non incentrata sull’automobile privata.

Alcuni esempi: Vienna e Copenaghen.

Anche esempi ecologicamente virtuosi come Copenaghen andrebbero riletti criticamente, come dimostrano le vicende de Mjølnerparken, un quartiere operaio ed etnico dove vivono 1.600 residenti in gran parte di origine “non-occidentale” (nuova categoria classificatoria introdotta nel dibattito danese) destinato a scomparire sotto la spinta della rigenerazione “gentrificata”.

In Europa ci sono però anche esperienze come Vienna, che potremmo considerare la capitale europea dell’edilizia sociale. La città vanta una lunga tradizione in questo senso e oggi il 42% della popolazione vive in affitto in alloggi sovvenzionati o a canone calmierato, gestiti da associazioni edilizie senza scopo di lucro, sovvenzionate con fondi pubblici, e questi alloggi non sono necessariamente destinati solo ai gruppi più poveri e marginali.

Questo non significa che le politiche neoliberiste che in Europa (non solo ovviamente) caratterizzano la trasformazione delle città dagli anni Ottanta, non siano arrivate a Vienna. Anzi le pressioni del mercato privato diventano sempre più forti. Ma la municipalità sta contrastando queste dinamiche, costruendo nuovi quartieri pubblici, ricorrendo alle grandi riserve di terreni edificabili di cui dispone.

Questo le permette di esercitare un certo controllo sul mercato, influenzando anche la qualità di ciò che si costruisce in termini di processo e progetto, ponendo regole agli imprenditori immobiliari e non subendole, come accede spesso nei processi di rigenerazione, dove i comuni si limitano al ruolo di facilitatori di progetti privati.

Ferrara e rigenerazione urbana: progetti e problemi

Anche a Ferrara sarebbe opportuno che i progetti di rigenerazione urbana proposti, la trasformazione degli edifici dismessi in studentati, la discussione sul rafforzamento della mobilità 30, la trasformazione discutibile a parcheggio delle mura sud (con annesso discount in via di costruzione), fossero collocati dentro una strategia.

Abbiamo un esempio di buona pratica nel primo recupero delle Corti di Medoro (e non si capisce perché non sia stato preso a modello per il Feris), esistono inoltre i documenti di programmazione come il PUG o il PUMS, ma spesso sono “quaderni” di buone intenzioni, che possono dare vita a progetti di natura completamente diversa, dipende da che parte si tira la coperta.

I progetti in corso oggi evidenziano chiaramente un ambientalismo di facciata. La volontà reale di andare in una direzione o nell’altra emerge dalla valutazione di ciò che una città sta facendo, dai progetti che si stanno portando avanti e le dichiarazioni del sindaco di Ferrara e della sua giunta sui problemi della casa, della mobilità, sui grandi eventi che si stanno programmando nel parco Bassani e in Piazza Trento e Trieste, che si leggono sulla stampa, vanno in una direzione che rendono vuote di significato le belle intenzioni dichiarate nei documenti di pianificazione.

Pensare Ferrara come una città che progressivamente dovrà decarbonizzarsi, ma che nel frattempo può lavorare per diventare una “Città Parco” e una “Città Campus”, significa definire delle finalità che inquadrano una strategia al cui interno vanno inquadrate le azioni che definivo sopra, ma anche le risposte a problemi quotidiani quali:

  • i rifiuti dilaganti;
  • la mobilità e la sosta selvaggia;
  • lo stato dei marciapiedi e delle piste ciclabili;
  • l’inadeguatezza del trasporto pubblico;
  • la crisi abitativa;
  • la violenza che si riscontra nelle strade della città (alla faccia della sicurezza) anche nelle relazioni interpersonali che hanno bandito la gentilezza e la cortesia;
  • gli allagamenti delle strade, quando piove intensamente;
  • la pessima qualità dell’aria nonostante tutti gli alberi piantati;
  • il calo del turismo e in particolare di qualità (per intenderci quello straniero, che spende);
  • l’economia che stenta e il nostro essere sempre fanalino di coda nelle classifiche sulla qualità;
  • lo spacciare l’apertura di supermercati come rigenerazione urbana mentre nel PUG si dichiara la città di 15 minuti;
  • il degrado dell’area di Darsena city lungo il Burana;
  • il perseguire una idea di città-prigione e segregazionista, invece di puntare verso una politica inclusiva sui migranti che avrebbe anche, in prospettiva, importanti ricadute economiche per la città e il paese;
  • infine, ma non da ultimo il razzismo latente che si respira in città.

Ferrara: progettazione urbana e governo democratico della città.

Qualcuno si è mai interrogato sulla qualità urbana delle entrate a Ferrara (città Unesco per la qualità del suo progetto urbanistico storico)? In particolare, da Via Bologna, da Via Modena e da Via Ravenna?

Come la gran parte delle periferie urbane, anche la nostra si presenta come insieme di contrasti e conflitti, di frammenti e interruzioni, di brutti edifici finiti e altri che lo diventeranno appena completati, di retri di capannoni con depositi di rifiuti affacciati sulle vie principali.

Strade cariche di auto, che vanno a passo d’uomo in molte fasce orarie, che riversano i loro gas di scarico in una atmosfera che le statistiche ci dicono essere una delle peggiori del paese. Auto che vagano alla ricerca di un parcheggio il più vicino possibile a dove si deve andare, visto che gli è concesso. Insomma, un paesaggio urbano dissonante rispetto ad una città storica, ricca, articolata ma minacciata da usi impropri.

Forse per chi governa oggi questa città la democrazia si identifica con la libertà di fare ciò che si vuole e non si identifica in un sistema organizzato di regole che tutti devono approvare e rispettare, dopo averle discusse e condivise. La libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono, perché quando si fa ciò che le leggi (o le regole) proibiscono non c’è più libertà, prevale la condizione homo homini lupus.

Quindi se fai notare a un signore di mezza età e al suo giovane figlio che, scendendo dal loro SUV, gettano degli scatoloni ai piedi di un cassonetto, che quei cartoni vanno piegati e posti dentro il cassonetto o portati in discarica, ti senti rispondere che loro fanno quello che vogliono. E se fai presente alla signora che se parcheggia in zona ciclo-pedonale, in terza fila o sul marciapiede, la sua auto impedisce il passaggio alle persone che camminano, ti risponde di non rompere i c……i.

Poi arrivato al caffè, dove a volte ti siedi per bere qualcosa, senti una anziana signora che racconta all’amica che è la prima volta che esce dopo un anno, perché è stata travolta da un monopattino e l’hanno operata alla schiena, o se ti affacci alla finestra di casa vedi un signore in bicicletta volare dopo l’impatto con un’auto in accelerazione nell’incrocio tra Corso Isonzo e le vie Garibaldi e Cassoli.

Mi si dirà sono comportamenti individuali, non è responsabilità dell’amministrazione pubblica, certo ma quando i comportamenti individuali scorretti diventano ricorrenti significa che qualcosa non funziona nella costruzione del senso comune. E questo si orienta anche grazie ai comportamenti delle persone che hanno rilevanza pubblica.

Papa Francesco nei suoi testi consacrati alla crisi ambientale ci ricorda che ogni cambiamento ha bisogno di motivazioni e di un cammino educativo. Dagli articoli letti in questi ultimi tempi su temi quali CPR, problema dell’abitazione sociale, mobilità urbana l’impressione è che la strada che si intende tracciare sia alquanto diseducativa, in particolare se promossa da persone che ricoprono ruoli istituzionali.

Diseducativa perché non si stimola il confronto aperto e franco sulle questioni in gioco, nelle quali si è in disaccordo ma, al contrario, si denigra e si delegittimano gli interlocutori. Quindi la domanda per le prossime elezioni da rivolgere ai candidati non riguarderà solo le politiche, i progetti e quindi i programmi (che prima o poi conosceremo!) che si intendono attuare, ma anche come si intende governare: condividendo e includendo o comandando e denigrando?

Cover: Murales in una periferia urbana (foto di Romeo Farinella)

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Romeo Farinella

Romeo Farinella, architetto-urbanista e professore ordinario di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara. Si occupa di problematiche urbane e paesaggistiche da almeno trent’anni. Prima di approdare a Ferrara ha vissuto in diverse città, tra cui Roma e Parigi e quest’ultima è diventata uno dei suoi temi principali di ricerca. Oltre a Ferrara ha tenuto corsi anche in Francia (Lille, Parigi), Cina (Chengdu), L’Avana e São Paulo e Saint Louis du Senegal. È stato direttore per alcuni anni del Centro di Ateneo per la Cooperazione allo Sviluppo Internazionale di UNIFE.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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