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Da secoli la scienza economica poggia le sue teorie su ipotesi relative alle condotte umane, in particolare sulla pretesa razionalità dei comportamenti individuali. Ma è sufficiente esaminare la razionalità attribuita agli operatori economici, dal punto di vista dei fattori cognitivi ed emotivi, per demistificare l’homo economicus e la sua fede nell’autoregolamentazione del mercato.
Le conseguenze di quei presupposti sono oggi sotto i nostri occhi, lì a dimostrare l’insostenibilità materiale dell’attuale sistema di produzione, distribuzione e consumo. Lo sviluppo tecnico raggiunto, la dimensione della popolazione mondiale, richiedono ora il riallineamento delle nostre economie in funzione di una crescita sostenibile – crescita zero o addirittura de-crescita – con un forte accento sulla localizzazione, in contrapposizione alla globalizzazione.
Rimediare agli enormi guasti ereditati dalla cultura industriale richiede azioni correttive che vanno ben al di là delle politiche degli Stati, preoccupati di garantire gli equilibri sociali più che il benessere delle persone. Saranno probabilmente necessari grandi sforzi a livello ambientale, sociale e culturale per almeno un paio di generazioni.
Ci sarebbe una notevole quantità di buone ragioni per giungere a elaborare un nuovo modello economico, alternativo all’attuale. Sono diverse le strade che da varie parti si prova a intraprendere. Il mondo fortunatamente non sta fermo.
Nel secolo della conoscenza, nel secolo che ha ereditato dal precedente espressioni come “gestione della conoscenza”, “sviluppo basato sulla conoscenza”, divenute familiari anche al linguaggio dell’economia, sarebbe auspicabile un paradigma economico capace di descrivere una società i cui comportamenti, anziché essere fondati sul possesso e sullo scambio di beni, poggiassero sul valore della conoscenza.

In fondo al tunnel non pare di vedere la luce, se non ci viene in soccorso quella che ci può derivare dal sapere. E allora i legami tra economia e conoscenza sono di quelli molto stretti, non di quelli lasciati alla presunta razionalità degli individui, ma al loro sapere e alle loro competenze. Apprendimento, innovazione e competitività fanno tutti parte di una stessa filiera, che produce conoscenza, beni e risorse intangibili. L’economia è fatta di consapevolezze e di responsabilità, di saperi diffusi, che non possono stare solo da una parte, ma che devono appartenere a tutti, di modo che non vi sia chi sa e può e chi non sa e subisce. L’economia della conoscenza, fondata sulla conoscenza, è la rivoluzione della nostra epoca. Ma bisogna farla. Non possiamo stare ad attendere che un simile sistema economico giunga a poggiare su un solido terreno scientifico, perché di tempo ce n’è ancora tanto prima che questo possa accadere, nel frattempo occorre che iniziamo dal nostro quotidiano.
Economia fondata sulla conoscenza significa innanzitutto particolare attenzione per ogni fase di gestione della conoscenza, a partire dalla sua natura e creazione, passando alla sua diffusione, trasformazione e distribuzione, fino al suo utilizzo. Conoscere richiama consapevolezza e responsabilità. L’economia della conoscenza non è l’economia del profitto, dell’utile. È l’economia dell’etica, della responsabilità di ciascuno nei confronti degli altri. La consapevolezza della ricaduta delle mie scelte e del mio agire sui miei simili, nella produzione come nella distribuzione e nel consumo. La cultura della responsabilità sociale e politica, dell’accountability, direbbero gli anglosassoni, quell’accountability che è la precondizione dei diritti umani e dello stato di diritto, da cui discende l’etica d’impresa e delle condotte individuali.

In un recente articolo Richard Heede, cofondatore e direttore del Climate Accountability Institute, attribuisce il 64% delle emissioni mondiali di anidride carbonica e metano a sole 90 grandi aziende: questa è una chiara questione di etica della responsabilità, gravemente inevasa e senza conseguenze per i responsabili, che dalle loro condotte hanno tratto guadagni e ricchezze sulla pelle dell’umanità.
L’economia della conoscenza è anche questo, forse non ha bisogno di forconi per scendere in piazza, ma che funzioni la filiera delle informazioni, dei saperi e delle consapevolezze, perché queste stanno alla base di ogni agire che si proponga di cambiare ed innovare.
Se si pensa alla città come ad un sistema economico complesso, quanto abbiamo scritto finora appare rilevante dal punto di vista della vita urbana. Le persone abitano le città perché hanno naturalmente scelto di vivere insieme e di condividere tra loro cose, soprattutto beni immateriali.
Entrambe le questioni costituiscono il cuore della crescita fondata sulla conoscenza, hanno implicazioni economiche profonde. Anzi, questi due aspetti costituiscono i pilastri dell’economia della conoscenza: il valore della conoscenza, lo scambio di beni immateriali. Se l’esperienza della maggior parte dell’umanità di oggi è urbana, se le città sono oggi i motori dello sviluppo socio-economico e culturale, se la maggior parte delle nuove dinamiche è basata sulla conoscenza, sicuramente una scienza economica dello sviluppo urbano fondato sulla conoscenza diventa rilevante.
La vicinanza che comporta la città, il condividere insieme la vita, aiutano la formazione di una consapevolezza etica, aiutano il senso di responsabilità che portiamo gli uni nei confronti degli altri, fino alla condivisione di saperi e conoscenze, per apprendimenti e consapevolezze sempre più diffuse. È qui che la conoscenza e la città si incontrano: un nuovo motivo per interpretare e promuovere le transazioni di valore umano.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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